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Foto: Simon Cocks

I consigli dei Serpenti per l’estate 2015 (2): Dino Buzzati, Patrizia Rinaldi, John Updike

di Rossella Gaudenzi

orsi

La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Dino Buzzati, Mondadori junior, 1977
Credo avessi otto anni quando dalla biblioteca della scuola elementare ho scelto di leggere, come primo libro da prendere in prestito nella mia vita, La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Ad attrarmi, oltre al ridondante titolo, sono state tutte quelle immagini, fitte e colorate figurine di orsi e uomini, che all’epoca non immaginavo fossero opera dello scrittore. Ho un ricordo vago e fosco di quella prima lettura, perché comparivano personaggi feroci, come il Gatto Mammone, cattivi, come il Granduca tiranno della Sicilia, in un testo in cui la distinzione tra buoni e cattivi è netta, i cattivi, e quindi il male abbondano: non solo tra le righe ma anche in quelle illustrazioni di guerre tra uomini e orsi con morti ammazzati nella neve, imbrattata di rosso sangue.
«Regnava in quell’epoca il Granduca di cui ne dovremo sentir tante: secco che pareva una festuca villano brutto e tracotante. Ma chi può mai voler bene al Gran Duca crudelissimo tiran?»
Appena questo libro mi è capitato a tiro, tra gli scaffali di una libreria, ho solo dovuto assecondare l’istinto di acquistarlo. E ora quello di ripercorrerne le pagine.
Mi attende un compito di una certa importanza: capire, a fine rilettura se è un libro per ragazzi (età consigliata dagli 11 anni in su) o che solletica meglio il mondo immaginifico degli adulti.

coverMa già prima di giugno, Patrizia Rinaldi, e/o, 2015
Estate chiama, a gran voce, mare. Da qualche giorno ho chiuso le pagine del libro Ma già prima di giugno della partenopea Patrizia Rinaldi che ha accantonato la letteratura per ragazzi – con Federico il pazzo (Sinnos 2014) ha vinto il premio Leggimi Forte 2015 ed è stata finalista al Premio Andersen 2015 – per dedicarsi alla scrittura di questo felice romanzo, dove il Golfo di Napoli è protagonista tanto quanto le figure femminili che lo animano.
Due differenti registri per narrare una saga familiare: in prima persona per voce dell’ormai anziana e malata Ena; in terza persona per sprigionare la forte personalità di Maria Antonia, madre di Ena, tra le drammatiche vicissitudini della Grande Guerra.

«Renato aveva imparato ad abbassare la voce e a usare parole più gentili del loro contenuto. Spiegò quindi all’avvocato in bella forma e con tono sommesso che il diritto all’eredità legittima, in questo caso dell’unica figlia del tenente morto, sfuggiva alle intenzioni testamentarie. La nonna avrebbe potuto lasciare persino tutto a una gatta e non ci sarebbe stato niente di male, tuttavia la gatta avrebbe dovuto cedere a Lucia la parte legittima che spettava a lei per legge e non per volontà della nonna.
Concluse:
“Osservi con attenzione le carte, converrà di certo che l’accordo è più favorevole a voi che a noi”.
Mentre l’avvocato studiava le carte e gli occhiali scivolavano per il sudore, Renato perse tempo ad allacciare le fettucce di dita della cartella.
Maria Antonia gli parlò a bassa voce, come quando erano piccoli sostituì le vocali con una sola – i – . Il loro modo bambino di usare un codice cifrato.
“Ci pii, si il gitti ì ni ziccili, il discirsi fili miglii (Che poi se il gatto è una zoccola il discorso fila meglio)”.
Renato alzò davanti alla faccia in palmi di pelle della cartella e rise.
Il riso diventò un ghigno. L’avvocato tossì per richiamare l’attenzione e poi disse che sì, che forse era conveniente per tutti un accordo».

Corri, coniglio, John Updike, Guanda, 2003
Lo scrittore della mia estate è il compianto John Updike, secondo John Cheever «il più brillante e versatile autore della sua generazione» che ho conosciuto qualche anno fa attraverso la lettura di Villaggi (Guanda 2007), talmente adatta come lettura estiva che recentemente ne ho sentito la nostalgia. Pronto per essere sballottato e seguire i miei spostamenti estivi, il suo caposaldo Corri, coniglio scritto nel 1960. «A poco più di quarant’anni dalla sua pubblicazione Corri, coniglio viene ormai riconosciuto come un testo fondamentale, si sarebbe tentati di dire canonico, nella letteratura degli Stati Uniti del Novecento, un classico moderno che peraltro non va collocato sullo scaffale, ma sollecita di continuo una rilettura, provoca nuovi stimoli… Nasceva con Harry Angstrom, detto Coniglio, un significativo esemplare americano di uomo senza qualità».

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Elena Refraschini (marzo 2015)

comodino_coverIL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Elena Refraschini 

Il mio comodino è, in questo periodo, un comodino “geografico”.

Il primo libro in lettura è I demoni del deserto del giornalista di origine iraniana Bijan Zarmandili (Nottetempo 2011): la storia delicata e struggente di Agha Soltani e la nipote, due sopravvissuti al terremoto di Bam che nel 2003 ha quasi completamente raso al suolo la città patrimonio dell’Unesco e ucciso un terzo della popolazione. Avevo scoperto questo titolo in occasione del Salone di Torino, pochi mesi prima del tanto atteso viaggio in Iran. Allora non potevo sapere che di lì a poco avrei conosciuto Elahe, unica sopravvissuta della sua famiglia al tragico evento. Ora, non posso non leggere questo romanzo come un’accorata ode alla forza, alla resilienza e al coraggio degli iraniani.

Probabilmente mi sono persa di Sara Salar (tradotto da J. Nassir) è l’ultimo romanzo della casa editrice Ponte33, a noi molto cara (tra l’altro incontreremo l’editrice Bianca Maria Filippini il 9 aprile in occasione del sesto appuntamento di Cosa si fa con un libro?). Pubblicato in patria nel 2009 e giunto alla ventiquattresima ristampa, ha riscosso un enorme successo di pubblico: solo allora la censura è intervenuta, bloccandone la circolazione. La protagonista si è trasferita a Tehran dalla lontana provincia del Baluchistan, dove viveva una vita dal grande rigore morale; da studentessa a Tehran si trova persa, ha tradito la famiglia, la migliore amica, sé stessa. La particolarità di questo romanzo è la scrittura tormentata, frammentata: mi piace la definizione di Bianca Maria Filippini, che l’ha chiamata “cubista”.

L’élégance du hérisson di Muriel Barbery è il bestseller Gallimard del 2006, pubblicato in Italia da e/o. Non posso dire molto altro su questo titolo, dato che il mio francese molto arrugginito mi consente di leggere non più di tre pagine a sera. Mi ha portata a riflettere, però, su quanto sia bello leggere in un’altra lingua, soprattutto quando si era convinti di ricordarsi quattro parole.

Il quarto libro è un divertente ed erudito saggio dello scrittore Graham Robb, del quale avevo apprezzato anni fa la biografia dedicata a Rimbaud pubblicata da Carocci. È un vero peccato che questo The Discovery of France non sia (ancora) stato tradotto in italiano: è il risultato di più di 20.000 km percorsi in bicicletta (e quattro anni di studio in biblioteca) per capire che cosa significa, oggi, essere francesi.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Elena Refraschini

Il comodino di Elena Refraschini

Le interviste dei Serpenti: Amara Lakhous

di Emanuela D’Alessio

Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Amara Lakhous, l’autore algerino di Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio, Divorzio all’islamica a viale Marconi, Un pirata piccolo piccolo, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (tutti pubblicati da e/o). L’abbiamo conosciuto alla libreria Pagina 348 in occasione del sesto appuntamento con “Libraio per un giorno”(il 17 maggio) e l’abbiamo intervistato alla libreria Risvolti, prima di un incontro con i lettori.

Amara Lakhous

Amara Lakhous

Parliamo innanzitutto della tua esperienza di “Libraio per un giorno” alla libreria Pagina 348. Come è andata?
È andata benissimo. È fondamentale per me, essendo scrittore, conoscere gli altri membri della squadra: oltre all’editore ci sono i librai ed è importante il gioco di squadra, svolgere un lavoro collettivo, perché l’autore da solo non va da nessuna parte. Io sono molto affezionato ai librai indipendenti e soprattutto a Pagina 348 e al mio amico Marco Guerra. Ogni volta che esce un mio libro vado da lui a presentarlo e vedo il lavoro straordinario di un libraio che pur trovandosi in una zona periferica è riuscito negli anni a motivare, a coltivare, a creare, a far amare i libri, come è successo per i miei romanzi. Quindi trascorrere una mattinata da lui, mettermi nei panni di un libraio, parlare di libri, è stata una bellissima esperienza.

Quali libri hai consigliato e quali “hai venduto”?
Ho consigliato alcuni classici come Don Chisciotte, Moby Dick, Madame Bovary di Flaubert, un romanzo di Philip Roth, autori italiani che sono anche miei amici, come Giancarlo De Cataldo e Massimo Carlotto. Ho cercato di far amare questi libri come li ho amati io e credo di esserci riuscito.

Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale non è di certo un supermercato. Un libro è diverso dalle patate, dalle carote, dal cibo che si vende nei supermercati. Il libro ha bisogno di tante mediazioni. Ad esempio, un libro tradotto ha avuto la possibilità di vivere in un’altra lingua e questo non accade senza il traduttore. Anche il libraio è un mediatore straordinario quando conosce il mestiere, non quando lavora in un supermercato. Non ho mai visto qualcuno in un supermercato consigliare un libro. Quindi la libreria ideale è quella con un libraio che è innanzitutto un grande lettore e che riesce a parlare con semplicità e profondità dei libri che ama. In questo Marco Guerra è veramente il prototipo del libraio ideale. Voglio ricordare anche due altri amici librai, Enza e Riccardo Campino, hanno creato una scuola per formare i librai, anche loro sono straordinari.

Come sono le librerie in Algeria?
Purtroppo in Algeria molte librerie hanno chiuso, anche perché il mondo editoriale arabo è estremamente diverso da quello italiano. In Algeria non c’è la distribuzione. La fiera del libro che si svolge ogni anno è l’unico momento in cui gli editori incontrano i lettori che fanno la spesa di libri per tutto l’anno, comprano all’ingrosso. Nel passato c’era il modello socialista, le case editrici appartenevano allo Stato ed esisteva un sistema di distribuzione regolamentata. Poi tutto è stato smantellato, le librerie hanno chiuso e sono stati aperti ristoranti, pizzerie, caffè.

Quello che si conosce dell’Algeria in Italia è sostanzialmente un insieme di stereotipi, ignoranza e pregiudizi. Che cosa sta accadendo realmente nel tuo paese e nel mondo arabo, sul piano politico e soprattutto culturale?
Sul piano politico la situazione purtroppo non è diversa da quella di altri paesi arabi. C’è un problema di corruzione molto vasto, le regole non vengono rispettate, c’è una classe dirigente di basso profilo. Ma per fortuna c’è anche una società civile che cerca di reagire, con intellettuali, scrittori e giornalisti indipendenti. Su questo versante sono più ottimista, perché c’è un’effervescenza positiva.

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Sei arrivato in Italia nel 1995. Perché non hai scelto, ad esempio, la Francia?
Ho scelto l’Italia perché sono uno scrittore spregiudicato, e su questo sono rimasto bambino in realtà, sognatore. Non aveva senso andare in Francia, la conoscevo già, nel bene e nel male. Volevo scoprire nuove strade, cercare in questo senso di essere originale. Poi da adolescente avevo scoperto il cinema italiano e ne ero rimasto folgorato. Quindi quando sono arrivato in Italia ho pensato che avrei avuto l’occasione per approfondire.

Sei arrivato come rifugiato politico e sei diventato cittadino italiano. Un percorso lungo e faticoso con un lieto fine, senz’altro un’eccezione ma anche un esempio di come la migrazione possa trasformarsi da necessità di fuga in opportunità di rinascita. Che cosa ne pensi?
Io sono stato molto fortunato per essere riuscito a partire dall’Algeria nel 1995, quando era quasi impossibile, difficilissimo. Certo, mi sono messo in gioco, ho rischiato. Non so se posso essere considerato un esempio. Ho cercato in questi anni di creare ponti, soprattutto sul piano letterario, perché sono uno scrittore bilingue, scrivo anche in arabo. Ho cercato di far conoscere la cultura italiana in Algeria e nel mondo arabo e di far conoscere la cultura araba in Italia. È questo il mio lavoro di intellettuale. Imparare a scrivere in una nuova lingua è stata una bellissima esperienza, come se fossi rinato un’altra volta. Sul piano linguistico cerco di compiere uno sforzo ulteriore, arabizzando l’italiano e italianizzando l’arabo, e scoprire così una via per l’originalità. Non ci sono, infatti, autori che scrivono in questo modo. Ho alcuni amici arabi che scrivono racconti in italiano, ma scrivere romanzi con una certa continuità nelle due lingue e rafforzare questo bilinguismo letterario è un caso senz’altro particolare.

Scrivi in arabo e in italiano. Il francese è la tua terza lingua. Perché non hai mai scritto in francese? Parlo francese molto bene e potrei anche scrivere in questa lingua, ma non lo faccio perché con il francese non sento l’intimità che vivo con l’italiano. Per scrivere in una lingua ci vuole una grande intesa, un grande amore. Io sono di lingua madre berbera, una lingua solo parlata. Avrei voluto studiarla ma dopo l’indipendenza del 1962 è stata censurata, messa al bando e l’ho imparata da mia madre. A scuola, per strada ho imparato l’arabo e in terza elementare ho cominciato a studiare il francese che ho avuto modo di approfondire e migliorare con i miei cugini emigrati in Francia. In Italia, quindi, ho iniziato a studiare l’italiano e lentamente si è creata questa intesa, talmente forte da farmi decidere di scrivere in arabo e in italiano.

pirataCome avviene la scelta delle due lingue per i tuoi romanzi?
Allora funziona così. Il primo romanzo Un pirata piccolo piccolo l’ho scritto in Algeria in arabo però è stato pubblicato nel 1999 con una bellissima traduzione in italiano di Francesco Leggio. Nel 2011 il mio editore e/o ha pubblicato la seconda versione. Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio è uscito in italiano nel 2006 e lo avevo pubblicato due anni prima in arabo con il titolo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. Ho riscritto la versione araba in italiano, non ho tradotto, al limite ho tradito il testo originale. Invece con Divorzio all’islamica in Viale Marconi, uscito nel 2010, ho fatto una nuova esperienza. Ho scritto la prima stesura in italiano, poi ho aperto il file sul computer e ho riscritto la versione italiana. Ogni tanto cambiavo la tastiera, dall’arabo all’italiano e viceversa, scrivendo due versioni gemelle dello stesso libro, con titoli e copertine differenti, la stessa trama e gli stessi personaggi, anche se con nomi diversi.

Che cos’è la scrittura per te?
Per essere sincero e senza voler apparire arrogante, penso che la mia scrittura sia di grande innovazione, sul piano dello sguardo e della lingua. Innovazione dello sguardo perché ho alle spalle altre culture, altri occhi che mi consentono di osservare la società italiana diversamente dai miei amici scrittori “italianissimi”.  Io sono uno scrittore italiano ma non italianissimo e tale condizione mi offre la possibilità di utilizzare altri strumenti per leggere la realtà. Basta citare l’ultimo romanzo, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, dove ho iniziato davvero a lavorare sulla memoria italiana. Qui ho raccontato gli italiani che sono andati in Romania nell’Ottocento per fare i muratori, gli italiani a Marsiglia, i meridionali che si sono trasferiti al nord e sono stati discriminati, massacrati, umiliati pur essendo italiani, bianchi, cattolici. Insomma, metto le mani dove penso sia difficile intervenire per uno scrittore italianissimo. Sul piano linguistico, invece, l’innovazione è un dato di fatto. Io non ho frequentato la scuola italiana, ho altre lingue alle spalle, il mio è un italiano arabizzato forse con influenze berbere e francesi. Ho uno stile particolare, un modo di raccontare diverso che può arricchire la cultura italiana e anche quella araba, italianizzando l’arabo, appunto. Ma sono solo all’inizio, ci vogliono anni per fare un bilancio. 

Nessuno dei tuoi libri è ambientato in Algeria. Perché?
I miei libri sono ambientati in Italia perché ho vissuto in questo Paese. Quando sono arrivato nel 1995 avrei anche potuto continuare a scrivere del mondo che avevo lasciato, ma ero talmente entusiasta e curioso che ho preferito dedicarmi all’Italia. Il romanzo Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio è nato proprio dal desiderio di narrare quello che avevo appena vissuto, la società multiculturale italiana fatta solo da napoletani, milanesi, torinesi, sardi. Mi affascinava l’idea di raccontare le molteplici culture che si incontrano e si scontrano, cominciano ad amarsi e a odiarsi. Ho cercato così di trovare una chiave narrativa, quella giusta; tutti abbiamo delle storie, infatti, ma la differenza tra uno scrittore e un altro è il modo di raccontarle. Io penso di aver trovato il modo migliore per raccontare l’Algeria, quello della commedia all’italiana. Nei prossimi progetti cercherò di esportare altrove questo genere. Sono andato a vivere in Francia dopo Torino e fra poco andrò negli Stati Uniti, potrò così sperimentare l’idea. Spero di tornare a parlare dell’Algeria nei prossimi romanzi.

Come è nato il rapporto con l’editore e/o?
Con e/o ho un rapporto bellissimo e non è nato per caso. Per anni, da lettore, ho seguito il mondo editoriale italiano e mi sono accorto che questa casa editrice era ideale per me, ho iniziato a corteggiarla. All’epoca lavoravo all’agenzia di stampa Adn Kronos e mi occupavo anche di cultura e libri per la parte araba. Lessi il romanzo La stella di Algeri dello scrittore algerino Aziz Chouaki, mi piacque molto e decisi di intervistarlo, presi contatto con l’ufficio stampa di e/o e così è iniziata la “storia”. Sono anche molto fortunato, perché con Sandro Ferri ho un rapporto diretto, è lui il primo a leggere i miei testi. Una opportunità che pochi autori penso abbiano di questi tempi.

I tuoi romanzi hanno titoli molto lunghi, con una connotazione spaziale ben precisa. Si può dire che già dal titolo si entra nella storia.
Sì, è così. Ho spesso parlato di un progetto letterario e queste sono alcune indicazioni molto chiare. Il titolo è un po’ come il nome di una persona, porta con sé un destino, alcune indizi. Curo molto il significato del titolo, e anche dei luoghi, perché anche il luogo è un personaggio del romanzo. Ho bisogno di andare a vivere in un posto per raccontare una storia. Per questo motivo sono andato a vivere a Torino, per due anni, per scrivere Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario e a settembre uscirà il nuovo romanzo La zingarata della verginella di Via Ormea.

Quartiere San Salvario a Torino

Quartiere San Salvario a Torino

Che cosa puoi dirci del nuovo romanzo?
Il romanzo è sempre ambientato a San Salvario e Via Ormea è una delle più importanti del quartiere. Ho fatto passare due anni dal precedente, qui siamo nel 2008, e racconto un’altra storia secondo il modello della commedia all’italiana. Anche in questo nuovo romanzo c’è un lavoro sulla memoria, perché parlo dei rom e dei sinti piemontesi, zingari arrivati in Italia nel XV secolo. Il problema dell’Italia oggi è questa amnesia spaventosa, la paura di affrontare il passato anche se nel passato c’è un patrimonio di esperienze prezioso da cui trarre insegnamento.

I tuoi libri sono tradotti in molti paesi, anche in Giappone, dall’italiano al giapponese. Parli quindi di temi universali?
Sì, esattamente. La letteratura dimostra che ci sono molti punti in comune. Possono cambiare i nomi, i personaggi, ma i temi restano in realtà gli stessi. Il tema fondamentale è forse quello della convivenza con le nostre diversità. In Giappone ci sono moltissimi emigrati coreani, quindi anche lì si ritrovano gli stessi problemi di cittadinanza, di conoscenza, del passato.

Hai vissuto a Roma e Torino. Prova a dirci un aspetto positivo e uno negativo di entrambe.
Sono due grandissime città. Roma rimane il mio primo amore, è una città straordinaria e qui ho vissuto sedici anni. Poi ho avuto l’intuizione di trasferirmi a Torino per seguire i miei personaggi e ho scoperto una città meravigliosa, penso che sia la più bella città d’Italia. È vivibile, vivace sul piano culturale, una città che, paradossalmente, con la crisi della Fiat e la fine del modello fabbrica, ha scoperto nuovi scenari. Una città che si sta ricreando, ricostruendo, come sta accadendo a Berlino dove ho vissuto nel 2009. Una cosa negativa di Roma è il turismo di massa, come accade per molte altre città. A Torino c’è un problema di memoria. Qui la migrazione meridionale è vissuta ancora con vergogna. Ho incontrato spesso persone con un atteggiamento sprezzante nei confronti dei nuovi immigrati e poi scoprivo che loro stessi, migranti degli anni ’50 e ’60, avevano subìto il medesimo disprezzo. Non si sta facendo nulla al riguardo, è forse questo l’aspetto negativo di Torino.

Jhumpa Lahiri

Jhumpa Lahiri

Concludiamo con l’immancabile domanda: che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Attualmente c’è un bellissimo romanzo, La moglie di Jhumpa Lahiri (Guanda). Ammiro molto questa scrittrice perché abbiamo molti punti in comune, non solo la questione della migrazione, ma anche la scelta di scrivere in italiano. Lahiri vive a Roma da due anni. Ho appena finito di leggere, invece, Poteva andare peggio di Mario Pirani (Mondadori) che ho apprezzato molto. In particolare i capitoli dove lui racconta di quando nel 1961 fu mandato da Enrico Mattei in Tunisia per prendere contatti con l’allora governo provvisorio algerino. Ha incontrato personaggi chiave della storia algerina ed è stato testimone di un periodo di amicizia fra l’Algeria e l’Italia. È stato molto interessante leggere di questa esperienza.

 

INDILIBR(A)I – Pagina 348 consiglia Piccola osteria senza parole di Massimo Cuomo

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

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Pagina 348 consiglia per maggio Piccola osteria senza parole di Massimo Cuomo (e/o).

Con il suo nuovo romanzo Cuomo si conferma un bravo scrittore, capace non solo di raccontare assai bene una storia ma anche di interpretare sentimenti di diversa natura, travolgendo il lettore con trovate, colpi al cuore e afffreschi dell’animo umano.
In un paesino del profondo nord-est, dove al bar si beve sin dal mattino e dove si parla solo in dialetto, capita un meridionale che presto scompagina i ruoli e le consuetudini, lasciando che i personaggi prendano nella storia un posto più naturale. Il timido si fa coraggio, il mostro rinasce principe, la pazza si innamora

Chi è Massimo Cuomo (dal suo sito www. massimocuomo.com)

Sono nato a Venezia nel 1974 e vivo a Portogruaro. Mi sono laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna. Dopo varie esperienze come giornalista, da oltre dieci anni ho intrapreso l’attività di imprenditore e freelance nel settore della pubblicità online. Ho esordito nella narrativa italiana con il romanzo Malcom, pubblicato nel luglio 2011 dalla casa editrice e/o.  Dal 29 gennaio 2014 è nelle librerie il mio nuovo romanzo, sempre per e/o. Si intitola Piccola osteria senza parole.

Piccola città bastardo posto, di Piero Ferrante
Macondo – La città dei libri – 13 aprile 2014

Piccola osteria senza parole
Massimo Cuomo
e/o, 2014
pp. 248, € 17,00

Le interviste dei Serpenti: Fabio Bartolomei

di Emanuela D’Alessio

Proseguono le interviste dei Serpenti con Fabio Bartolomei. Lo avevamo conosciuto nel luglio 2011, al Circolo degli Artisti. Eravamo tutti esordienti, lui con il romanzo Giulia 1300 e altri miracoli (e/o), e noi con il blog Via dei Serpenti. Qui la nostra prima intervista. Lo abbiamo ritrovato “Libraio per un giorno” alla libreria Pagina 348 il 29 marzo. E riprendiamo da qui.

Ti avevamo lasciato alle prese con il tuo secondo romanzo, che è diventato La banda degli invisibili. Lavoravi come pubblicitario e scrivevi dopo le otto di sera. Sono passati tre anni. Che cosa è successo nel frattempo?
Nel frattempo è uscito We are family, ho smesso di lavorare come pubblicitario e di scrivere dopo le otto di sera. Adesso posso iniziare comodamente alle otto del mattino.

L’iniziativa “Libraio per un giorno” di Pagina 348 sta avendo molto successo. Come è andata la tua esperienza?
È stato bello, divertente, faticoso. Sono stato libraio per meno di quattro ore e la mia stima verso i librai a tempo pieno è cresciuta a dismisura. Senza contare che ho lavorato con un ruolo privilegiato, i clienti si sono fidati ciecamente dei miei consigli e non mi sono capitati dei casi difficili tipo “Buongiorno, dovrei fare un regalo al fratello di una mia amica, non lo conosco, non so nemmeno se sia il caso di regalargli un libro. Cosa mi consiglia?”. Nel ruolo di libraio-veggente avrei fatto una pessima figura.

Quali libri hai consigliato e quali “hai venduto”?
Tra gli altri ho consigliato, e venduto, Il cappotto di Nikolaj Gogol, Ho servito il re d’Inghilterra di Bohumil Hrabal, Furore di John Steinbeck, L’amica geniale di Elena Ferrante, Full of  life di John Fante.

Qual è la tua libreria ideale? E chi è il libraio ideale?
Mi piacciono le librerie piccole, quelle che sono obbligate a scegliere. Mi piacciono i librai che danno la sensazione di non concepire alternative nella vita.

Che cosa diresti al Lettore Zero, quello che non ha mai letto un libro e ne va anche orgoglioso?
Dipende, anche niente. Magari questo orgoglioso non-lettore è un grande appassionato di teatro, di cinema o di fotografia. Magari ha altri modi per aprire la mente, per ampliare la conoscenza e stimolare la sensibilità. Leggere libri è un piacere che nessuno dovrebbe negarsi, ma non è indispensabile. Si può vivere anche senza. Se poi parliamo del lettore zero dell’altro tipo, quello che non legge perché con un libro in mano si annoia, non so, forse partirei dalle origini. Gli suggerirei di leggere Topolino.

Tra i libri della tua vita, ci avevi detto tre anni fa, ci sono Tompusse e il romano antico di Buzzichini e Furore di Steinbeck. Oggi ce ne sono altri?
Sì, ce ne sono altri e mi piace cambiare idea molto spesso. Una volta è Canada di Richard Ford, un’altra è Le lune di Giove di Alice Munro, poi è La paga del sabato di Giuseppe Fenoglio e per un paio di settimane è anche La schiuma dei giorni di Boris Vian. Per le scelte definitive c’è ancora tempo.

Nel 2004 hai vinto il Globo d’Oro con il cortometraggio Interno 9. Prima di scrivere libri scrivevi sceneggiature. Il tuo romanzo di esordio Giulia 1300 e altri miracoli sta per diventare un film di Edoardo Leo. Cinema e narrativa si alternano e si intrecciano nel tuo percorso. Scrivere sceneggiature non è come scrivere romanzi e visto il successo che stai incontrando come scrittore sembrerebbe questa la tua vera vocazione. Che cosa ne pensi?
Non è proprio così. Ho sempre scritto romanzi, solo che (giustamente) non me li pubblicavano. Ho iniziato a dedicarmi alle sceneggiature grazie a un bravissimo regista, Davide Del Degan, che ha letto una mia storia e ha deciso che poteva funzionare come cortometraggio. E infatti ha funzionato. Romanzi e sceneggiature sono occasioni per raccontare storie, per costruire personaggi e metterli alla prova. Preferisco di gran lunga i romanzi perché se proprio sento la necessità di un effetto speciale so che me lo dovrò costruire con le mie mani, col metodo più artigianale che esiste, parola dopo parola.

Giulia 1300 e altri miracoli è stato tradotto in inglese e tedesco. Come è stato accolto sul mercato internazionale?
Francamente non ne ho idea. Ho avuto qualche riscontro sulla versione inglese, è piaciuta a librai e lettori, della versione tedesca invece non so nulla. Così a occhio non credo che sia un buon segno.

Nell’ultimo anno stiamo assistendo all’impressionante espansione dell’autopubblicazione. Lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes si chiedeva in un articolo: «Senza questo mediatore più o meno affidabile (l’editore), senza il libraio attento alle nostre preferenze, persi nel mezzo di una critica esercitata allegramente nei blog e a suon di tweet dei figli di qualunque nostro vicino di casa, chi ci guiderà nel sempre più procelloso e super-popolato mondo dei libri che ogni entusiasta della letteratura è libero di lanciare nel cyberspazio?». Che cosa ne pensi?
L’autopubblicazione non è un problema, se non ti piace puoi ignorarla. Così come puoi ignorare il marasma di blog e tweet e continuare a seguire i consigli del tuo giornalista, del tuo editore o del tuo libraio di fiducia. I veri problemi sono gli editori “meno affidabili” e i librai che sono sempre meno in generale. Se oggi il lettore rischia di finire ad annaspare nel cyberspazio è per la riduzione dei punti di riferimento non per l’aumento dei cyberautori. Poi certo, i motivi che stanno portando alla riduzione dei punti di riferimento sono molti e anche difficili da analizzare però, per cominciare, eviterei di confondere le cause con gli effetti.

"Giulia 1300" BartolomeiTorniamo ancora a Giulia 1300 e altri miracoli. Lo hai promosso personalmente organizzando incontri ravvicinati con i lettori, senza intermediari e al di fuori delle librerie. Continui a promuovere così i tuoi libri?
Continuo a incontrare i lettori fuori dalle occasioni formali ma non si tratta di promozione, è un piacere personale.

Che cosa c’è da leggere o ci dovrebbe essere sul tuo comodino?
Ci sono Edna O’Brien, Emmanuel Carrère, Goliarda Sapienza e Marco Montemarano. Ci dovrebbero essere almeno un centinaio di classici che ancora mancano all’appello e in più vorrei metterci tutti gli autori italiani contemporanei, senza selezioni di sorta. Un comodino molto ambizioso.

C’è un libro che non smetteresti mai di leggere?
Ho letto e riletto molti libri. Ogni volta che un romanzo mi affascina ma non riesco a capirne il motivo lo smonto pezzo per pezzo finché non ne scopro il meccanismo. Poi basta, passo volentieri ad altro. Non ho mai avuto fissazioni particolari, i libri belli mi fanno venire voglia di leggerne altri, possibilmente migliori.

INDILIBR(A)I – Pagina 348 consiglia Macadàm di Paolo Teobaldi

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Marco Guerra consiglia per il mese di marzo Macadàm di Paolo Teobaldi (e/o).

Come spiega Gadda, in esergo, il macadàm è un tipo di pavimentazione stradale di breccia e asfalto ideata da John London· Mac Adam. E Gengoni Selvino, cantoniere dell’Anas, porta questo soprannome come già suo padre, che era stradino, perché l’uno ha trasmesso all’altro la dedizione per il tratto di strada statale che hanno in custodia.
Un pezzo della storia d’Italia e degli italiani del secolo scorso visto da una casa cantoniera nelle Marche. Protagonisti i fatti piccoli e quelli grandi, le generazioni che si succedono, i ricordi e il loro valore nella vita degli uomini. Sullo sfondo di questo bel romanzo un mondo che non c’è più, con le lucciole in campagna, i ragazzi che escono di casa con il servizio militare e uomini e donne che passano le serate di primavera seduti sul ciglio della strada a raccontarsi storie.

«Gaddiano allora Teobaldi? Certo la lezione del grande milanese, non a caso ammiccante nell’epigrafe, è evidente nella cura per la nominazione della realtà, nella volontà di fare risaltare l’evidenza delle cose, di estrarre dal linguaggio un possibile barlume del reale. Ma certo il nostro autore è ben lontano dalla viscerali gaddiana, da quella potente rabbia corrosiva che da se stessa estrae la densità e l’evanescenza degli oggetti e dell’esistere. La scrittura di Teobaldi è tenera e cordiale: il suo accurato impegno lessicale tende piuttosto a una pacata evocazione degli oggetti, sostenuta da un simpatia per l’umanità di quella piccola provincia che si è trovata ad attraversare le trasformazioni del Novecento, partecipando e nel contempo resistendo a uno sviluppo che ha agito sulle forme del lavoro, sulla costruzione del quotidiano, sullo spazio e sui percorsi in cui è dispiegata la vita del paese». (Il Manifesto/Alias)

Paolo Teobaldi è nato nel 1947 a Pesaro, dove vive. Ha fatto il traduttore, il copywriter e l’insegnante d’italiano. Come narratore ha pubblicato: Scala di Giocca (Edes, Cagliari, 1984) e per e/oFinte. Tredici modi di sopravvivere ai morti, La discarica, Il padre dei nomi (Premio Frontino, Montefeltro 2002), La badante, finalista al premio Strega, e Il mio manicomio. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue.

Macadàm
Paolo Teobaldi
e/o, 2013
pp. 176, 18,00