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Una favola ambigua, tra malattia e aldilà

di Emanuela D’Alessio

Leggere L’invulnerabile altrove di Maurizio Torchio è stato come precipitare in acque scure e agitate e lottare per restare a galla, per raggiungere una riva, per non desistere dalla ricerca di risposte.
Torchio, con voce levigata e raffinata, ha scritto una storia incredibile e magnetica da cui non ci si può sottrarre, sebbene ci si senta spesso al cospetto di un idioma incomprensibile ma dalle sonorità così attrattive che non si ha tempo per distrarsi.
Forse si tratta di una riflessione filosofica sull’eterno dibattere interiore tra l’io e l’altrove cui dare disperato ascolto; forse di una storia sull’infelicità che diventa sofferenza, solitudine, vera e propria malattia del vivere da cui non sembra possibile guarire; forse di una interpretazione del Prima e del Dopo, metafora temporale del passaggio tra la vita e la morte, ma anche di un mondo di vivi con un Prima perduto e un Adesso implicitamente peggiore.
Insomma, forse abbiamo letto una storia universale sul dolore e i conflitti dell’anima, sul passato e sul futuro.
Indugiando nell’atmosfera del libro, dove a fare da protagoniste sono una donna senza nome e la voce di una sconosciuta che le risuona dentro all’improvviso, vorrei provare a parlarne con Maurizio Torchio, alternando la mia voce alla sua (in grassetto), sperando di trovare qualche nuova linea di luce.

Già nelle prime righe viene posta la domanda cruciale. «Perché il mio presente è abitato, prosciugato dall’altrove? Perché in una parte della mia testa si è fatto posto per un pezzo della tua?». Una risposta ovviamente non sarà mai fornita, il lettore è lasciato da solo alle sue interpretazioni.
Ho subito pensato a una rappresentazione molto creativa della malattia mentale. Sentire le voci è, del resto, uno dei sintomi più ricorrenti della schizofrenia. Poi però questa “voce” risulta molto diversa dagli standard abituali: ha un nome, Anna, appartiene a una donna che è vissuta cento anni prima a Londra e che arriva direttamente dall’aldilà. Quando era in vita lavorava in una fabbrica di fiammiferi, ha sempre combattuto contro fame e povertà, ha generato numerosi figli, ha avuto un marito. Ora che è morta descrive il mondo in cui è arrivata, pieno di persone sconosciute e di animali, un mondo nuovo dove nessuno la sta aspettando, dove tutti chiedono e nessuno risponde. Un mondo fatto di sabbia e fiumi, ma che in fondo non sembra così diverso da quello dei vivi.
A questo punto le mie interpretazioni sono già entrate in confusione. Perché rivolgersi a un passato così remoto per raccontare il presente? Perché ricorrere all’idea di un aldilà, presupponendo non solo che esista ma che sia addirittura più vitale di quello dei vivi, per affrontare temi che affliggono l’umanità vivente?

Ma non sono mezzi per un fine: conta la favola, non la morale.
Ed è una favola ambigua, non c’è dubbio. Chi narra è soltanto malata o è davvero in contatto con l’aldilà? Io ho fatto il possibile per restare sul crinale, e mi rendo conto che questo può generare un certo disagio in chi legge.
Può darsi che Anna sia soltanto un sintomo della voce narrante. Oppure che (marzullescamente, philipdickianamente) la voce narrante sia soltanto un sintomo di Anna. A un certo punto Anna racconta di aver assistito a una parata, nella vita del Prima [nel libro di carta la voce di Anna è evidenziata, qui l’ho messa in grassetto]:

«Quale Re?» Non lo so. «Edoardo VII?»
Perché me lo chiedi?
«Provami di essere esistita».
Dici sul serio?
«No… Sí invece!»
Provamelo tu allora.
«No, tu sei stata qui». Io ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti ho visto una casa, e abitato un corpo. Ma come faccio a essere certa che fosse davvero il tuo?
È vero. Io pura voce nella testa di Anna.
Anna che ha lavorato da Bryant&May e mangiato la cena dell’incoronazione offerta ai poveri di Londra il 5 luglio 1902, e applaudito la parata del 9 agosto, e forse persino quella del 25 ottobre. Anna rivestita di particolari, io nuda.
Io l’ombra, l’esangue, l’inganno senza nomi, luoghi, date o carestie.

Può darsi siano entrambe reali ma comunque malate: loro si vivono così. Forse questo libro è la storia di un’amicizia fondata su una reciproca malattia, una reciproca invasione (e sulla paura che i rispettivi mondi ne hanno).

Nel tempo presente la donna senza nome – sappiamo che fa l’ingegnere, ha un compagno e un amante, vive in due case, ha le tette grosse e i capelli neri, zoppica, è insonne però la notte, quando si sveglia, di solito è felice – va in cerca di maternità, in modo goffo e velleitario per la verità, un tentativo di cura per guarire il silenzio delle relazioni, una malattia diversa dalla follia. Anna invece ha avuto innumerevoli figli nel suo Prima, anche se non ricorda quanti e nemmeno come fossero. Nel Prima la maternità era vissuta in modo più vero, forse perché libero dal bisogno? Nel Dopo, in questo caso non più il tempo dei morti ma quello presente dei vivi, si fanno nascere figli, o ci si prova, per porre rimedio ai guasti di un’esistenza malata.

Maurizio Torchio

Il Prima di Anna tutto era fuorché libero dal bisogno. I figli arrivavano (e spesso morivano) senza pensarci troppo su semplicemente perché non c’era scelta: non c’erano né le risorse né il tempo per fare altrimenti.
Invece l’idea che fare un figlio insieme (Anna e la voce narrante; il corpo della voce narrante posseduto da Anna e dall’amante/fuco di voce narrante) sia una cura dai fantasmi, dalle voci disincarnate, è senz’altro balzana ma ha una sua tradizione. Non è certo la prima volta che il contatto fra mondi si trasforma in copula.

«Zoppicare vuol dire: camminare appoggiato a chi manca. Ogni passo perdere l’equilibrio, come chi sta per addormentarsi, o morire; e ogni passo stupirsi, perché il passo prima non ti ha insegnato niente, e continui a sbilanciarti, a sperare». La speranza è una dimensione interiore, una prospettiva di visione, un’interpretazione attiva dell’esistenza, «se non hai vissuto tutto quello che avevi da vivere si può rimediare». Ma il cambiamento riguarda solo chi si risveglia alla fine di una trasformazione profonda, solo chi è diventato talmente diverso da aver fatto scomparire quello che era prima.

La speranza è una dimensione interiore ma deve trovare appigli nel mondo. Una delle promesse del Dopo è dare spazio, tempo e spazio a quello che non si è stati (e questo naturalmente può trasformarsi in un alibi per continuare a centellinarsi nel Prima). Cito:

Arrivi come te lo aspetti.
«E chi era senza braccia?» Come eri abituata. «Chi è diventato adulto sbavando?» Arriverà cosí. «Non è crudele?» Ma qui, qui dura un battito di ciglia. Sarebbe mostruoso se fosse la fine: è soltanto l’inizio. E chi è vissuto sbavando tornerà ad avere sei mesi, torna all’età in cui si notava di meno. E da lì riparte.
E chi è arrivata bambina diventa ragazza, chi è arrivata vecchia ritorna ragazza.
Tutto quello che hai saputo, non quello che avresti potuto imparare. Il massimo della tua bellezza, per quanto eri brutta. Il più possibile equanime, e generosa, divertente, coraggiosa – come di più non lo sei mai stata.
Anzi: come non lo sei stata mai, cosí, tutta insieme.
Anche se non sei arrivata nel tuo giorno migliore, si può rimediare. Si può rimediare… Se non hai vissuto tutto quel che avevi da vivere si può rimediare. Sono le piccole mute frenetiche che si fanno da soli, appena arrivati, e riguardano il passato. È un modo per fare il punto, tirare una riga. E da lì in avanti fiorire davvero. Cominciare le metamorfosi che riguardano il futuro, quello che ancora non si aveva l’idea di poter diventare.
Diventare più complicati e più semplici.
E queste sono rare, e si fanno insieme agli altri, di notte.

Il mondo da dove viene Anna, il Dopo, l’aldilà di sabbia e fiumi, è popolato da “idioti”, che sono contagiosi e avvelenano i fiumi. Quindi due persone che si incontrano si infettano, si contagiano di dolore inutile che continua anche quando non serve più?  «Dicono che gli insetti non soffrano, perché il dolore serve a imparare, a cambiare, e loro vivono troppo poco, non ne avrebbero vantaggio. Per un insetto appena nato è già tardi. Sarebbe uno spreco». Ma il dolore a cosa serve?

Cito:

Ormai Anna ha imparato che esistono dolori inutili, o che continuano anche quando non servono più.
Arti amputati che soffrono. Arti fantasma.
Campanelli che suonano, e non ci sono porte da aprire.

I morti del libro traggono energia dallo stare insieme, dall’essere presenti insieme agli altri. Non scrivono, non hanno oggetti: cantano e ballano, improvvisano coreografie e acrobazie. Guai a chi perde sincronia col gruppo, a chi sposta altrove il baricentro della propria esistenza, a chi sprofonda in sé stesso e/o nel passato. Idioti e lutto sono tabù. Vanno espulsi. Parte dello stigma di Anna viene dall’avere avuto un compagno, nel Dopo, che è diventato idiota. E dal sentirne la mancanza. Cito:

Io pensavo il lutto fosse una cosa del Prima, come la fame, uccidere, nascere, recintare. Qualcosa che non mi avrebbe riguardato mai più.
È quasi impossibile che gli idioti avvelenino i fiumi. Sono dicerie, come per gli appestati.

Nella pagina finale dei ringraziamenti sono citate molte persone tra le quali mi piace evidenziare Jack London, Roberto Calasso, Philip. K. Dick, Sylvia Plath. Sarebbe bello se Maurizio Torchio spiegasse il perché del suo legame con ciascuno.

Jack London non è il mio autore preferito ma ha avuto un ruolo inspiegabilmente decisivo in tutti i libri che ho scritto finora. In questo caso con Il popolo degli abissi e con le foto che scattò in quell’occasione. La Londra di Anna viene in buona parte da lì.
Roberto Calasso non tanto per L’impuro folle, come ci si potrebbe aspettare, ma per Le nozze di Cadmo e Armonia, per il contatto fra mondi – anche carnale, violento, persecutorio – che lì è raccontato.
Philip Dick per l’ossessione verso i simulacri che si trova sia nei suoi libri sia – a quanto ci raccontano Sutin e Carrère – nella sua vita.
Sylvia Plath per La campana di vetro.

Concludo con una domanda che non ha nulla a che fare con L’invulnerabile altrove ma con il suo autore. Una domanda in apparenza banale e generica, una domanda di quelle che fanno cadere le braccia o alzare gli occhi al cielo: perché scrive Maurizio Torchio?

Beh, è il mio angolino di (quasi) invulnerabile altrove.

Maurizio Torchio

L’invulnerabile altrove
Maurizio Torchio
Einaudi, 2021
pp. 160, € 17,50

Maurizio Torchio è nato a Torino nel 1970 e vive a Milano con una moglie e un figlio. Ha una laurea in filosofia e un dottorato in sociologia della comunicazione. L’invulnerabile altrove è il suo ultimo romanzo dopo i racconti Tecnologie affettive (2004) e i romanzi Piccoli animali (2009) e Cattivi (2015).

 

 

La città dei vivi, una narrazione letteraria della realtà

di Emanuela D’Alessio

Ho finito di leggere La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi) già da un po’, ma non accenna a esaurirsi il profondo turbamento che sta insidiando le mie giornate, scandite da domande tanto incalzanti quanto prive di risposte definitive. In fondo, come dice lo stesso Lagioia, «un libro non dovrebbe dare risposte definitive ma sollevare le giuste domande».

Quando il caso Varani infranse la barriera dell’anonimato piombando su tutti i media nazionali il 6 marzo 2016, la mia reazione fu di immediato sconcerto per l’estrema ferocia e l’incomprensibile movente del delitto, poi però smisi di seguire la vicenda, come sempre mi capita con la cronaca nera. La prima domanda è, allora: perché ho deciso di leggere un libro che di quei fatti si è nutrito, trasformando migliaia di pagine di atti giudiziari, perizie, intercettazioni, sentenze, interviste, in una straordinaria narrazione letteraria della realtà? Perché sono vulnerabile al fascino dell’ossessione, volevo capire i motivi che avevano portato Lagioia a dedicarsi negli ultimi quattro anni a questa vicenda, una dedizione assoluta, ossessiva, appunto. A pag. 271 è lui stesso a spiegarlo raccontando dei suoi anni di adolescente a Bari. A quel punto, però, il perché dell’ossessione dell’autore non è più così essenziale rispetto a quanto si va svelando.

I due assassini, Marco Prato e Manuel Foffo, sono stati descritti dai famigliari, dagli amici, dagli avvocati, dai cronisti, come due ragazzi “normali”. Anche Luca Varani – la vittima innocente di questo disastro – era un ragazzo “normale”.
La seconda domanda dunque è: se la patente di normalità con cui ci sentiamo al sicuro è diventata carta straccia dopo il delitto Varani, allora siamo tutti potenziali carnefici? Lagioia solleva l’interrogativo (a pag. 383), ci fa sorgere un dubbio che difficilmente avremmo contemplato spontaneamente. «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice? È sempre: ti prego fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego fa’ che non sia io a farlo».  

E, aggiungo io, l’essere vittima ci garantisce automaticamente il bonus dell’innocenza? La vittima è sempre innocente o anche responsabile, almeno un po’, dell’esplosione incontenibile e addirittura purificatrice del male? Nel caso Varani è stato abbozzato anche questo filone interpretativo (Varani era una marchetta, Prato e Foffo si facevano di cocaina senza limiti, Prato era omosessuale, etc.).

Non ci sono risposte definitive, ci affidiamo impotenti alla banale antinomia fortuna/sfortuna oppure all’azione del demonio (il colonnello dei carabinieri incaricato delle indagini aveva accostato l’omicidio Varani a un caso di possessione). Qualunque sia l’interpretazione adottata ci mettiamo al riparo dalla responsabilità, soprattutto se scegliamo lo zampino di Satana. Se commettiamo il male perché posseduti, allora non siamo irrimediabilmente cattivi ma soltanto deboli.

Nicola Lagioia. Foto di Nicola Garrone

Negli ultimi quattro anni Nicola Lagioia ha incontrato moltissime persone ricevendo da ciascuna un’informazione, un documento, una riflessione, un’opinione, un dono. Luigi Manconi, che allora era presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Senato, gli ha regalato Il libro dell’incontro, una testimonianza di un lungo esperimento, tra il 2009 e il 2015, di giustizia riparativa tra alcuni parenti delle vittime di terrorismo e alcuni diretti responsabili. Nel caso Varani non è accaduto nulla del genere, il padre della vittima non ha mai ricevuto dalle famiglie dei carnefici una richiesta di contatto, una lettera, una parola.
Arriva la terza domanda, questa però la rivolgo direttamente all’autore: perché non è stato mai ricercato né favorito quel tipo di incontro necessario per continuare a sentirsi umani? Dove sono finiti tutti gli “esperti della mente” che si sono prodigati in perizie e interpretazioni?

Nicola Lagioia ha risposto così:
Provo a risponderti, ma per quello che posso rispondere io, perché la mia è un’interpretazione come un’altra. Una volta che è finito il libro secondo me lo scrittore non necessariamente ne sa e ne capisce più del lettore. Sì, sarebbe stato bello se le famiglie si fossero parlate, però non è una cosa che uno come me può pretendere, ovviamente. Avrebbe potuto pretenderlo o può pretenderlo Giuseppe Varani che si è spesso dimostrato deluso per questo mancato avvicinamento. Che cosa sarebbe successo in caso? Non lo so. E anche tutti i vari esperti della mente, come li chiami tu, non avevano il compito di fare una terapia di gruppo ma di verificare, molto più modestamente, la capacità di intendere e di volere degli imputati. Quindi è un auspicio il mio, un sogno forse impossibile, tenendo conto della situazione e delle ferite. Nel Libro dell’incontro c’erano stati dei mediatori a prendere l’iniziativa, anche perché il terrorismo era una questione nazionale, pubblica. Questa invece è una vicenda eclatante, che ha avuto pubblica diffusione, ma non è una questione nazionale come il terrorismo che ha coinvolto moltissime persone. Sì, sarebbe stato bello, ma poi chi di preciso avrebbe dovuto fare da mediatore? Non è contemplata nel nostro ordinamento, né in altri, l’eventualità della giustizia riparativa. È questo forse il problema.

In La città dei vivi non c’è soltanto il delitto Varani, così difficile da derubricare in semplice fatto di cronaca nera, ma un’intera città. Roma non è solo la scena di un crimine atroce, ma di una corale tragedia contemporanea, con quotidiani smottamenti di legalità, civiltà, modernità. «La pioggia a Roma ricorda a tutti che la modernità è un battito di ciglia nell’infinito svolgersi del tempo». Roma ogni giorno è derubata, violata, intossicata, sporcata; Roma è vittima ma anche carnefice; da Roma si vuole fuggire, a Roma si vuole tornare. A Roma può accadere ogni cosa, è bellissima, è eterna.

Nel libro c’è un altro personaggio, sebbene secondario ed estraneo ai fatti dell’omicidio. È un turista olandese ma non un turista qualsiasi, è un pedofilo in cerca di prede finché non viene arrestato. Poi però lo ritroviamo al terminal 3 di Fiumicino a bordo di un Airbus della Thai pronto al decollo.
L’ultima domanda è questa: chi è il turista olandese, forse è il male che riesce sempre a insinuarsi in una crepa delle nostre armature di latta per colpirci e proseguire indisturbato il suo cammino?

Nicola Lagioia ha risposto così:
Sì, potrebbe essere come dici tu, forse una presenza metafisica del male che continua ad andare avanti senza mai fermarsi. Potrebbe essere quello, potrebbe essere la necessità di avere uno sguardo esterno su Roma da parte di una persona che viene per prendere qualcosa, è un predatore, però poi se ne va e non è detto che abbia preso di più di quello che ha ricevuto di negativo in cambio. Insomma, lascio aperto il finale.

La città dei vivi è un libro bellissimo, un romanzo di fatti veri, non credo di saperne di più dell’autore dopo averlo letto, non so nemmeno se mi sono posta le giuste domande. Però continuerò a provarci.

Nota a margine
Quando le mie domande hanno raggiunto Nicola Lagioia lui era in treno verso Firenze per la sua straordinaria attività di promozione di libri e librai, in giro per l’Italia. Dopo poche ore mi ha inviato un messaggio vocale. Apprezzo molto uno scrittore quando non si sottrae ai propri lettori.

Nicola Lagioia, in uno scambio con Giuditta Casale, ha  elencato alcuni titoli di quella tradizione letteraria di “non fiction novel” che l’hanno sorretto in questi anni: A sangue freddo di Truman Capote, Compulsion di Meyer Levin, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La pelle di Curzio Malaparte, La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia.

Nicola Lagioia (Bari 1973) ha pubblicato con minimum fax Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001) e con Einaudi Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009) e La ferocia (2014, vincitore del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

I consigli dei Serpenti per l’estate 2018 – Emanuela D’Alessio

Emanuela D’Alessio consiglia:

Resto qui – Mario Balzano (Einaudi, 2018)
Mario Balzano non ha vinto lo Strega 2018, però è lui il “mio” vincitore. Resto qui è una storia semplice ma dalle molteplici letture che l’hanno resa per me sorprendente, avvincente e irresistibile.
È una storia sulla resistenza, ma senza partigiani, perché i protagonisti sono gli abitanti di Curon, un piccolo paese del Sud Tirolo, che non volevano essere né fascisti, né nazisti, che  hanno usato i fucili solo per difendersi, che sono andati fra le montagne solo per sfuggire all’insensatezza della follia di quegli anni, che hanno lottato fino all’ultimo giorno contro la condanna a morte del loro paese, decretata dall’indifferenza spietata di chi decise di costruire una diga nel luogo sbagliato e per motivi incomprensibili.
È anche una storia di resistenza, resistenza al dolore inconsolabile che soltanto i figli riescono a provocare ai loro genitori, resistenza alla perdita e all’ingiustizia, resistenza alla devastazione di una guerra, resistenza alla sopraffazione e al cinismo di cui gli uomini sanno dare sempre nuovi sofisticati esempi.
Con la sua scrittura asciutta e netta Balzano ci restituisce un prezioso sguardo su un frammento di storia vissuta, lontana dalle cronache e dalle celebrazioni, ma che ci costringe a riflettere, ancora una volta, sulle infinite possibili declinazioni della sofferenza.
Una storia dura e dolorosa, ma che trasmette dalla prima all’ultima pagina una straordinaria forza, indicandoci probabilmente l’unica via possibile a nostra disposizione per attraversare l’esistenza: «Andare avanti è l’unica direzione concessa, altrimenti Dio ci avrebbe nesso gli occhi di lato, come i pesci».

La ferrovia sotterranea – Colson Whitehead, trad. di Martina Testa (SUR, 2017)
Unica opera degli ultimi vent’anni a vincere sia il National Book Award sia il Premio Pulitzer, La ferrovia sotterranea è un altro libro sulla “resistenza”, in questo caso alla brutalità della schiavitù e del razzismo. La giovane schiava Cora intraprende la sua fuga verso la libertà da una piantagione della Georgia, in un’alternanza stupefacente e drammatica di colpi di scena, di orrori e violenze.
La ferrovia sotterranea è un romanzo sulla schiavitù che ha macchiato per sempre la storia degli Stati Uniti. È un romanzo sulla forza della disperazione, sul dolore inimmaginabile, sulla straordinaria capacità di sopravvivenza che gli uomini riescono sempre a trovare. È un romanzo pieno di orrore e brutalità, ma anche di flebile speranza, quella che scorre lungo la ferrovia sotterranea, un’espressione americana per indicare il percorso segreto che veniva utilizzato dagli schiavi in fuga dai loro padroni, la rete di simpatizzanti che cercava di aiutarli a raggiungere il Nord e lasciare per sempre il Sud schiavista in cerca della libertà.

Berta Isla – Javier Marías, trad. di Maria Nicola (Einaudi 2018)
Con la consueta raffinata eleganza che caratterizza tutti i suoi romanzi, Javier Marías ha scritto una nuova potentissima storia sull’incomunicabilità, sull’amore e la sua inafferrabilità, sull’ambiguità e la fragilità dei sentimenti, sulla precarietà della verità, sulla forza della casualità che governa l’esistenza.
Per farlo ha scelto gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, collocando i suoi personaggi tra Spagna e Gran Bretagna e attingendo al genere dello spionaggio. Ma se Tomás Nevinson si ritrova suo malgrado al servizio dell’Intelligence britannica, Berta Isla, che è anche il nome della moglie di Tomás, non è una storia di spionaggio. È piuttosto una storia sull’attesa, paziente e dubbiosa, poi rabbiosa, quindi rassegnata, e alla fine anche desiderata, perché  «chi si abitua a vivere nell’attesa non ne accetta mai del tutto la fine». È una storia sull’illusione della libera scelta, di essere padroni della propria vita. È una storia sull’infinita alternanza della paura e della speranza, del tempo che modifica tutto e tuttavia non cancella.
Alla fine, come ha scritto Claudio Magris, non c’è più il dubbio tra essere e non essere, ma tutti siamo e non siamo.

Cosa leggiamo a Natale 2017. I consigli dei Serpenti

Emanuela D’Alessio

Dopo la recente lettura di Il paradiso degli animali di David James Poissant (traduzione di Gioia Guerzoni), la straordinaria raccolta di racconti che NN ha pubblicato nel 2015, proseguo con Paradisi minori di Megan Mayhew Bergman (traduzione di Gioia Guerzoni), sempre per NN editore.
Molte le analogie tra i due libri: sono simili i titoli e le copertine (entrambe verdi e con due illustrazioni di uccelli variopinti), sono raccolte di racconti.
C’è, infine, il virgolettato di David James Poissant in quarta di copertina: «Le storie di Megan Mayhew Bergman sono riflessioni delicate e piene di forza sul significato dell’essere soli e dell’essere innamorati, spesso allo stesso tempo. Paradisi minori tocca le mie corde più profonde ed è la più bella raccolta di racconti dell’ultimo decennio».
Non dò mai molta importanza agli endorsement fra scrittori, ma ogni tanto si può fare un’eccezione.

Rossella Gaudenzi

Non ho resistito al richiamo di Paolo Cognetti e alla tradizionale Fiera romana Più libri più liberi ho acquistato Il ragazzo selvatico in una nuova edizione di Terre di Mezzo impreziosita dalle suggestive illustrazioni di Alessandro Sanna. La suddivisione in stagioni e capitoli dal titolo essenziale e quasi tangibile, come Neve, Orto, Notte, Fieni, Capre, hanno fatto presa su di me più dell’idea della storia, che segue il filo della ricerca di sé.

Incuriosita dalla nuova collana di Edizioni Clichy Rive Gauche – Fiction e non-fiction americana, a cura di Tiziana Lo Porto, proseguirò con la lettura del primo titolo della collana Figlie di Brooklyn di Jacqueline Woodson (traduzione di Tiziana Lo Porto): una storia al femminile nella New York dei primi anni Settanta.

Continua la lettura appassionata e illuminante dei classici per ragazzi della BUR, a cura di Antonio Faeti, rigorosamente in edizione integrale. È una lettura sorprendente diventata per me un vero nutrimento, non dimenticando Italo Calvino: «Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani».

Dopo la lettura recente di Il giardino segreto, L’isola del tesoro, La guerra dei bottoni, Pattini d’argento, mi attendono per Natale Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery e Il mago di Oz di L. Frank Baum.

Pierluigi Lucadei

Sognando la luna di Michael Chabon (traduzione di Luciana e Margherita Crepax, Rizzoli)
Un uomo anziano, alla fine dei suoi giorni, racconta la propria vita al nipote. Si tratta di una vita straordinaria, piena di amore, violenza, inganni e grandi sogni, come quello di conquistare la Luna; la vita di un piccolo grande uomo del Novecento, che difficilmente sarebbe stata ricordata se il nipote non si fosse chiamato Michael Chabon. Allora la storia di un nonno diventa un romanzo picaresco, uno dei migliori dello scrittore americano, e come sempre tra la verità e la finzione a vincere è la letteratura.

4 3 2 1 di Paul Auster  (traduzione di C. Mennella, Einaudi)
Dopo un lungo periodo di assenza dal romanzo, Paul Auster torna con un’ambiziosa opera di quasi mille pagine in cui alla storia di Archie Ferguson, ragazzino della provincia americana innamorato di New York, vengono concessi quattro diversi e plausibili percorsi, che partono dall’anno di nascita (il 1947, lo stesso dell’autore) per toccare l’assassinio di Kennedy, la guerra in Vietnam, l’idealismo e la ribellione degli anni Sessanta. 4 3 2 1 affronta il tema preferito di Auster, quello dell’identità, con una scrittura limpida e insieme vertiginosa.

Il modo di dire addio  di Leonard Cohen  (Il Saggiatore)
Ogni occasione è buona per tornare a Cohen, che dopo la sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile in tutti gli amanti della canzone d’autore. Non si può non accogliere commossi, dunque, il nuovo volume pubblicato da Il Saggiatore che mette insieme conversazioni e interviste inedite che toccano tutto lo scibile coheniano e svelano un mondo interiore fragile e composito, dolorosamente dedito alla ricerca della bellezza. Curato dal giornalista americano Jeff Burger, con una scritto di Francesco Bianconi dei Baustelle.

Mont Plaisant di Patrice Nganang (traduzione di Maurizia Balmelli, 66thand2nd)
Nei giorni scorsi Nganang è stato arrestato per essersi espresso in modo critico nei confronti del presidente del Camerun Paul Biya e delle sue politiche nei confronti della minoranza anglofona camerunense. Evidentemente la voce di uno scrittore fa particolarmente male a un politico al potere da trentacinque anni, già accusato da Amnesty International per le ripetute violazioni dei diritti umani. Il romanzo Mont Plaisant, recentemente pubblicato in Italia da 66thand2nd, racconta di una giovane donna che studia negli Stati Uniti ma torna nel suo Paese per indagare le origini del nazionalismo camerunense.

La lezione di Bernard Friot: ascoltare i bambini

SCARABOCCHI – La rubrica dedicata alla letteratura per bambini e ragazzi 

di Rossella Gaudenzi

«Paolo, Jan, Kurt, Juri, Jimmy, Ciù e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.
Paolo era bruno, Jan biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciù la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino.
Pablo andava al cinema in spagnolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua».
Gianni Rodari, Uno e sette, in Favole al telefono

Quasi un incontro tra pari quello avvenuto alla Biblioteca Centrale Ragazzi, a Roma lo scorso 5 ottobre, tra Bernard Friot, il celebre scrittore e insegnante francese, e gli alunni di una terza primaria della Scuola elementare Grottarossa.
Bernard Friot, per l’appunto noto come il Gianni Rodari francese, è uno degli autori di Sette e uno. Sette bambini, otto storie, la recente pubblicazione di Einaudi Ragazzi illustrata da Mariachiara Di Giorgio e curata da David Tolin, che nel 2010 ha fondato la libreria specializzata per ragazzi Pel di Carota a Padova.

«Per questo libro  – si legge nella sua introduzione – quello che avete in mano in questo momento, è stata scelta la favola più intensa e civica della raccolta, Sette e uno, per parlare d’infanzia oggi, per provare a raccontare il nostro contemporaneo, a cinquantacinque anni dall’originale, per costruire una nuova geografia umana o solamente per continuare a “giocare” con le parole di Rodari, le sue idee, la sua forza».

David Tolin ha raccontato ai giovanissimi ascoltatori che l’idea è nata «dalla voglia di giocare con le parole alla maniera di Gianni Rodari. Dal libro Favole al telefono ho scelto Uno e sette che inizia così: “Ho conosciuto un bambino che era sette bambini”. Idea semplice, perché mi sono chiesto se ci fosse qualcuno che volesse raccontare la storia di tutti i bambini contenuti nella favola: Paolo, Jean, Kurt, Juri, Jimmy, Ciù, Pablo. Sono andato a un’importante fiera del libro per ragazzi, il Bologna Book Children’s Fair, ho bussato alla porta della casa editrice Einaudi, ho proposto il progetto e dopo poco mi è stato risposto che sì, si poteva fare. E così ho chiesto a sette famosi scrittori per ragazzi di scrivere una storia. Loro sono Beatrice Masini, Bernard Friot, Ulrich Hub, Daria Willemstad, Dana Alison Levy, Yu Liqiong e Jorge Lujàn».

Bernard Friot, dopo aver letto Un et sept nella sua lingua, il francese, fa da calamita per tutti i presenti, piccoli e grandi lettori e in un italiano dolce e musicale si racconta, incalzato delle domande vivaci dei bambini.
Racconta degli inizi, del suo mestiere di insegnante di liceo in un plesso che comprendeva una Scuola Primaria e proprio lì, tra i banchi degli alunni più piccoli, è iniziato uno scambio proficuo. «Mi mettevo in fondo alla classe ed era lì che i bambini venivano a raccontarmi le loro storie che io trascrivevo puntualmente, facendo loro quasi da segretario. Poi, poco a poco, ho iniziato a rispondere con le mie storie alle loro storie; ogni tanto regalavo un racconto a un bambino. Non ero ancora uno scrittore; mi è stato suggerito di inviare i miei racconti a una casa editrice. È così che sono diventato scrittore, senza volerlo. Perché la vita è davvero sempre piena di sorprese e di possibilità».

Il suo primo libro è Histories pressées, pubblicato nel 1988 e tradotto in italiano con Il mio mondo a testa in giù (Il Castoro, 2008) cui è seguito Altre storie a testa in giù (Il Castoro, 2014).
Impossibile per lui citare un libro preferito. «Quanti libri non ho ancora letto? Sono tanti i libri che ho amato, legati a momenti diversi della mia vita. Ho molto amato i libri di Rodari Favole al telefono e Le avventure di Cipollino. Come si fa a non amare la storia di una cipolla? La lettura è esattamente il momento della vita in cui leggi un determinato libro, con tutte le sensazioni che comporta».
Si rammarica di non aver conosciuto Gianni Rodari. Quando morì nel 1980 Friot non aveva ancora letto le sue opere, che ha scoperto solo due anni dopo. «Cinque anni fa – ricorda lo scrittore – sono andato a visitare la casa di Rodari a Roma, ho ammirato la sua scrivania, il luogo della creazione dei suoi libri, e ho vissuto un momento molto emozionante».

Una bambina, che secondo la maestra è fissata con l’età, gli chiede quanti anni ha. «Sette volte sette più dieci più nove», risponde Friot. Ma il calcolo è sbagliato, perché un tentativo dopo l’altro, arriviamo a capire che Bernard Friot ha sessantasei anni.

«Dove vivi? In Francia. Dov’è la Francia? A Parigi» suggerisce qualcuno. «Ma no, è Parigi che si trova in Francia» corregge prontamente qualcun altro.

«Quanti libri hai scritto?», incalzano i bambini. «In Francia si è soliti dire: quand on aime on ne compte pas, ossia quando si ama non si conta – risponde Friot – Non lo so, perché ogni libro è il riassunto di tanti incontri: il libro l’ho incontrato prima, durante e dopo la scrittura del libro stesso».

«Qual è il tuo ultimo libro?»
«Il mio ultimo libro non è ancora uscito in Italia, sarà edito da Lapis e, sulla scia di Dieci lezioni sulla poesia, l’amore e la vita (Lapis 2016) avrà il titolo Dieci lezioni sulla cucina, l’amore e le vita. Il tema culinario sarà quindi dominante. Il testo è scritto, ora sono all’opera traduttrice, grafico e tutte le altre figure che realizzano quei bellissimi oggetti che sono i libri».

«Scrivi libri con altri scrittori?».
«Non direttamente. Posso affermare che quando scrivo ho in testa tutte le storie che ho letto; di sicuro l’ispirazione mi arriva da Rodari così come nei miei libri sono presenti altri scrittori e storie, ma finora non ho mai scritto un libro a quattro mani, insieme a un altro autore. Non ho un metodo di scrittura strutturato, potrei dire che buona parte della mia scrittura è affidata all’improvvisazione: oggi scrivo tre pagine, domani nulla, la storia deve arrivare a me, quindi, ad esempio, esco a passeggiare. Non posso certo considerarmi uno scrittore disciplinato».

Poi, con i bambini, accade quel che Bernard Friot ha anticipato all’inizio dell’incontro: si dà loro modo di giocare con le parole e iniziano a dare sfogo alla fantasia, creare e inventare l’incipit di storie. Partendo da una struttura in cui sono gli oggetti a raccontarsi, i bambini iniziano con: Un giorno un… mi ha detto. Un giorno un martello mi ha detto… L’oggetto-soggetto cambia vorticosamente. Una panchina davanti alla scuola. Un collare per cani. Una televisione. Un’auto sportiva. Un libro di storia. E così via.

È questa la grande lezione di Bernard Friot: occorre ascoltare i bambini, quel che i bambini hanno da dire e da raccontare. E sicuramente il bambino che è dentro di noi si risveglierà.

Bernard Friot, nato a Saint-Piat nel 1951, è uno dei più originali e amati scrittori per ragazzi. Prima di approdare alla scrittura ha insegnato in una scuola di Lile e poi per quattro anni è stato responsabile del “Bureau du livre de jeunesse” a Francoforte. Da allora si dedica alla traduzione dal tedesco di fiabe e novelle ritenendo che questa attività abbia la medesima nobiltà e creatività della scrittura d’invenzione. Stando a stretto contatto con i bambini ha avuto la possibilità di studiarne la grande creatività anticonvenzionale nell’inventare storie, che è diventato il suo modello stilistico. Friot infatti si autodefinisce uno “scrittore pubblico”, in virtù della necessità che ha di fare spesso incontri con il suo pubblico di giovani lettori per ricaricarsi di emozioni. In Italia i suoi libri hanno molto favore da parte di ciritica e pubblico: il suo primo libro di racconti Il mio mondo a testa in giù ha vinto il Premio Andersen 2009 come migliore libro 9/12 anni. Vive e lavora a Besançon in Francia.

La Biblioteca Centrale Ragazzi (via San Paolo alla Regola 15) è dedicata esclusivamente alla letteratura per ragazzi. Custodisce circa 30mila testi tra favole, fiabe, fumetti e libri illustrati per bambini, testi di educazione alla lettura e alla multiculturalità, una raccolta storica dagli anni ’80 di letteratura giovanile e dei periodici di letteratura per ragazzi.

I consigli dei Serpenti per l’estate 2017: Rossella Gaudenzi

Rossella Gaudenzi consiglia:

In un’estate in cui desidererei, ancor più degli anni passati, essere lambita dal freddo delle latitudini scandinave, ho scelto di ripercorrere il catalogo Iperborea alla ricerca di un titolo tra i più amati di sempre, L’imperatore di Portugallia del premio Nobel Selma Lagerlöf (1858-1940), la scrittrice svedese più nota al mondo. Custode delle memorie, delle tradizioni e delle saghe delle sue genti, Selma Lagerlöf costruisce la storia amara del bracciante di fine Ottocento Jan Andersson, che fa della paternità e della figura della figlioletta la sua ragione di vita.
«Per quanto vecchio diventasse, Jan Andersson di Skrolycka non poté mai stancarsi di raccontare di quel giorno in cui la sua bimbetta era venuta al mondo». Jan costruisce però una realtà parallela e sull’orlo della follia trasfigura l’esistenza meschina della sua famiglia raccontandosi belle favole irreali, in un gioco di equilibrismi tra sogno e verità.

Conquistata definitivamente dalle raccolte di racconti e dalla casa editrice Racconti Edizioni scelgo per l’estate una delle due ultime uscite, Eudora Welthy e le diciassette storie che danno vita a Una coltre di verde. Opto quindi, citando il titolo della recensione che al libro dedica la scrittrice (di racconti) Rossella Milone, per “l’umanità sgangherata alla periferia del Mississippi”.

Per i piccoli lettori ma non troppo, un classico e una nuova uscita da mettere nella valigia delle vacanze.
La coerenza mi porta a cercare una storia di divertimenti, di bambini tra fredde acque e si ferma su un capolavoro di un’autrice che ha tenuto generazioni di ragazzi con gli occhi incollati alle pagine delle sue storie avventurose: Astrid Lindgren, Vacanze all’isola dei gabbiani (Salani Editore).

Come è accaduto a Pinocchio e Lucignolo, a Hansel e Gretel o a Clara e Hans all’inseguimento del principe Schiaccianoci, Quanti pasticci, Ricottina! opera prima di Roberta Mastruzzi (Einaudi Ragazzi, Storie e Rime) trascinerà lettori bambini e adulti nell’irresistibile universo dei dolci, fatto di personaggi bizzarri a metà tra l’umano e il fantastico. Nel mondo di Ricottina i sentimenti più nobili albergano in personaggi fatti di dolciumi e i sentimenti più biechi in quelli in carne ed ossa. Ricottina, quasi interamente umana ma con mani e piedi di ricotta, è una piccola eroina del nostro tempo: sfida e vince i più temibili e irriducibili nemici, che sono le sue paure. Una storia fiabesca scritta con grazia, stile e intelligenza.