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I consigli per l’estate dei Serpenti: Lorena Bruno

di Lorena Bruno

Alda Merini e Giorgio Manganelli: consigli di lettura sulle tracce di due grandi autori

Quando si parla di letture estive, c’è chi pensa a libroni che si ha finalmente il tempo di divorare, e chi invece in vacanza vuole solo piluccare, come si fa con le riviste, quando si legge questo o quel pezzo, magari che parli di libri. E allora l’Antologia privata di Giorgio Manganelli diventa irrinunciabile per chi voglia saltare da un articolo a un brano di narrativa e poi a un “improvviso per macchina da scrivere”.
estrositàEcco come nasce: per una raccolta che poi venne pubblicata da Rizzoli nel 1989, l’autore scelse brani tratti dai suoi libri di narrativa, risvolti di copertina e articoli usciti su vari giornali; a questi in seguito sono stati aggiunti altri pezzi scritti dopo quell’anno e editi nel 2015 da Quodlibet. L’Antologia fa pendant con Le estrosità rigorose di un consulente editoriale curate da Salvatore Silvano Nigro e pubblicate pochi mesi fa da Adelphi; lì si scoprono i retroscena del laboratorio del consulente editoriale, dello scrutatore libresco che collezionava le proprie schede di valutazione e nel frattempo attendeva alla propria attività di scrittore, qui invece si ritrova Manganelli nelle sue sfaccettature: il recensore, il narratore, il pensatore della letteratura.
Il volume di Quodlibet presenta piacevolissime sorprese, come la recensione alle Lezioni americane di Calvino, che Manganelli scrisse per Il Messaggero nel 1988, individuando in quelle pagine «un testo letterario che parla di letteratura» e sottolineando la «chiarezza» dello stile dell’autore:

«Libro stupendamente duplice, un testo letterario che parla di letteratura.
[…]
Diviso in cinque capitoli intitolati ad altrettante immagini letterarie – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità – questi vogliono esser letti, credo, come Cinque Lezioni Fantastiche, magari le prime cinque di una Mille e una notte critica».

antologiaNell’Antologia privata si leggono anche recensioni ardue come quella della Divina Commedia, riflessioni sul mistero di Omero, su cosa voglia dire leggere i russi, sul perché Pinocchio sia un eroe negativo e con quali espedienti narrativi Collodi insiste sulla sua solitudine.
In questi scritti Manganelli mette nero su bianco alcune questioni fondamentali della letteratura, i suoi sono incisi che si rivelano imprescindibili: «Lavorare alla letteratura è un atto di perversa umiltà», dice, «Se qualcuno non ama le grammatiche, non prendetelo sul serio, né come lettore, né come scrittore», o ancora «Non credetegli quando dicono che lo scrittore deve adoperare una lingua che tutti devono capire. Non la deve capire nessuno!». Oltre il critico letterario, emerge il teorico della letteratura.
La raccolta contiene inoltre il discorso che Manganelli tenne nel 1973 al convegno su “Jung e la Cultura Europea”, dove specifica che il suo è un intervento che si può «allegare ad una cartella clinica», in cui rinuncia a essere presentato come professore, perché «il professore non è dalla parte della letteratura, è dalla parte della cultura». Con questo intende condannare la prassi studentesca dell’imparare date di nascita e morte degli autori, e quel nozionismo cieco che non conduce allo scoperta delle lettere. La letteratura consiste piuttosto nella contestazione e, per quanto oggetto di conflitti continua pur sempre a vivere, «non è possibile sopprimerla come non è possibile sopprimere né i propri sogni, né la propria nevrosi». E in questo consiste la letteratura, nella nevrosi, perché rappresenta il sintomo della cultura moderna.
«Ed ecco qui un altro conflitto: io sospetto che voi siate, psicologicamente parlando, sani, e questo mi è insopportabile. Solo nella misura in cui voi siete in qualche modo nevrotici noi possiamo riuscire a capirci. Io spero che voi siate torturati da forme spaventose di nevrosi. Spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualcosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona».

È forse il linguaggio della nevrosi e dell’incubo che ha accomunato Giorgio Manganelli e Alda Merini, nel loro scambio sulla letteratura. Il pensiero corre alla poetessa sebbene Maria Corti inviti a non pensarla in tal senso, perché «è necessario resistere alla tentazione di dilatare leggende che fioriscono sulla follia, il disordine mentale, l’orrore quotidiano come miti dell’immaginario: la scrittura, la poesia è un dato che prepotentemente mette nell’ombra ogni cronaca coi suoi eventi».
vuotoTuttavia Merini torna alla mente per il suo legame con Giorgio Manganelli, a cui ha dedicato la raccolta Vuoto d’amore. Nell’edizione Einaudi (1991) possiamo leggere l’Introduzione di Maria Corti, preziosa per capire l’intreccio della poetica di Merini con le vicende della sua vita. Scrive Corti: «Allora ogni sabato pomeriggio lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato di loro». Aggiunge che Manganelli aiutò la poetessa in un percorso di faticosa coscienza di sé, in cui la scrittura doveva avere la meglio sui fantasmi che l’agitavano e che a volte la portavano nelle stanze del manicomio; quando ne uscì, telefonò a lui per primo, che la salutò con un «Ciao rediviva!».

In alcuni versi incontriamo la sua sagoma riconoscibile:
[…]
perciò tu che mi leggi
fermo a un tavolino di caffè,
tu che passi le giornate sui libri
a cincischiare la noia
e ti senti maestro di critica,
tendi il tuo arco
al cuore di una donna perduta.
Lì mi raggiungerai in pieno.

Vuoto d’amore, sebbene dedicato a Manganelli, raccoglie liriche per altri amori di Merini, quello per le figlie e per gli uomini che ebbe accanto, testi in cui ricorrono i temi della terra e del ventre, della tempesta e delle zolle, dove la scrittrice «semina parole» e «lascia impronte».

Se si vuole andare ancora in cerca della voce della Merini – ironica e poetica –, e dei suoi pensieri per Manganelli, consiglio anche Le parole di Alda Merini, pubblicate da Stampa Alternativa (1991), dove si incontrano brani di prosa che sanno di stralci di lettere e diari intimi:
«Ti vorrei parlare, Giorgio, di certi solchi di neve, di certi fondali da teatro, di certe demenziali rappresentazioni, ma lei è tornata e posso specchiarmi nella sua follia e capire in fondo che ne sono responsabile io sola e che io sola posso servirti».
La relazione tra i due non durò e presero strade divergenti. Vennero nuovi amori e nuovi libri. Tuttavia si può scorgere nei testi il comune sentire riguardo alla letteratura, vagheggiare i motivi delle conversazioni e dello scambio di due grandi protagonisti della nostra cultura.

I consigli per l’estate dei Serpenti: Pierluigi Lucadei

Pierluigi Lucadei, l’autore della nostra rubrica Musica per camaleonti, consiglia:

Io sono vivo, voi siete morti, Emmanuel Carrère (Adelphi, 2016)
Esultino gli appassionati di Philip Dick e quelli di Emmanuel Carrère, perché Adelphi ha da poco ripubblicato la biografia del guru della fantascienza firmata dall’autore de L’avversario in una nuova pregevole traduzione (di Federica e Lorenza Di Lella). Attraverso una scrittura chirurgica, (auto)analitica, Carrère disegna una vita ai margini della normalità, facendo leva innanzitutto sui romanzi che Dick ha scritto negli anni e trasformandoli in materia biografica più autentica della biografia stessa. Io sono vivo, voi siete morti è un libro lungo e folle, ma non incompatibile con l’ombrellone.

Sei chiodi storti, Dario Cresto-Dina (66th and 2nd, 2016)
Ci sono pagine di storia che hanno rischiato di non essere scritte. Una di queste è la prima e unica Coppa Davis del nostro tennis, vinta nel 1976 da Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, con Nicola Pietrangeli capitano non giocatore. La finale era in programma a Santiago contro il Cile e siccome al potere c’è il dittatore Pinochet e si era nel pieno degli anni Settanta, la politica, la stampa e l’opinione pubblica si misero di traverso per non far giocare l’incontro. Gli azzurri partirono e (con la Rai che oscurò l’evento) si presero ciò che meritavano. Il libro di Cresto-Dina serve per non dimenticare quel trionfo a quarant’anni di distanza.Trilobiti

Trilobiti, Breece D’J Pancake (minimum fax, 2016)
Forse è fin troppo facile la santificazione di uno scrittore morto suicida a ventisei anni, autore di un solo libro, la raccolta di racconti Trilobiti. Eppure chi ha letto le sue storie sa bene che Pancake era uno scrittore di razza, capace di convogliare in un unico spietato rintocco narrativo la forza biblica della natura, la solitudine dell’America rurale, l’odore delle roulotte e la polverosità delle cave di carbone, l’angoscia di una vita misera e di un sesso infelice. Queste pagine sono le uniche che ci restano di uno scrittore nichilista e disperato, e minimum fax le ha appena ripubblicate nella nuova traduzione di Cristiana Mennella, con la prefazione di John Casey e una nota di Joyce Carol Oates.

Racconti d’inverno – Karen Blixen

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Rossella Gaudenzi

INVERNO – Racconti d’inverno di Karen Blixen

Inauguriamo l’inverno letterario con Karen Blixen e i suoi Racconti d’inverno.

Charles Despard, lo scrittore, entrò in un piccolo caffè di Parigi e vi trovò un amico, un compatriota, che in tutta calma stava cenando a un tavolo accanto alla finestra. Sedutosi di fronte a lui, trasse un profondo sospiro di sollievo e ordinò un assenzio. Finché non glielo portarono e non lo ebbe assaggiato si limitò ad ascoltare attentamente, senza aprire bocca, le poche osservazioni banali del compagno.

Fuori nevicava. I passi della gente non producevano alcun suono sul sottile strato di neve che copriva il marciapiede; la terra era muta e morta. Ma l’aria era intensamente viva. Negli intervalli di tenebra tra un lampione e l’altro, la neve che cadeva non era altro, per i passanti, che un continuo,  gelido tocco cristallino sulle ciglia e sulla bocca. Ma intorno ai vetri delle splendenti lampade a gas essa non era più invisibile, e si rivelava in un turbine di piccole ali traslucide che sembravano danzare su e giù, un piccolo mondo bianco simile a un febbrile, silenzioso, fatato alveare. La Cattedrale di Notre-Dame baluginava alta e severa, uno scoglio impennato all’infinito nella notte cieca.

[da Un racconto consolatorio]

«Io sono una cantastorie e nient’altro che una cantastorie».
La raccolta Racconti d’inverno della danese Karen Blixen vide la luce nel 1942. Sette storie gotiche e La mia Africa avevano già reso celebre la scrittrice a livello internazionale e nel ’42 la Danimarca era sotto l’occupazione tedesca: il manoscritto fu consegnato all’ambasciata inglese a Stoccolma per essere inviato negli Stati Uniti. Alla fine della guerra si diffuse la notizia del gran successo dell’opera.
Attraverso undici racconti – Il giovanotto col garofano, Il campo del dolore, L’eroina, Il racconto del mozzo, Le perle, Gli invincibili padroni di schiavi, Il bambino che sognava, Alkmene, Il pesce, Peter e Rosa, Un racconto consolatorio – l’autrice mette in campo l’abilità nel tessere storie che vivono di interrogativi a Dio e alla natura, di ambientazioni (anche qui) gotiche, oniriche, avvolte di foschie, percorse da sussulti di inquietudine.

Racconti d'invernoKaren Blixen (Karen Christentze Dinesen baronessa von Blixen-Finecke 1885-1962), danese, scrisse le sue opere prevalentemente in lingua inglese esordendo, quasi cinquantenne, nel 1934 con le Sette storie gotiche. Il suo capolavoro viene considerato La mia Africa (1937), ispirato alla terra amata dove visse a lungo. La maggior parte delle sue opere è pubblicata in Italia da Adelphi: Sette storie gotiche (1978), Ehrengard (1979), Racconti d’inverno (1980), Ultimi racconti (1982), Ombre sull’erba (1985), I vendicatori angelici (1985), Il matrimonio moderno (1986), Lettere dall’Africa 1914-1931 (1987), Carnevale e altri racconti postumi (1990).

Racconti d’inverno
Karen Blixen
Traduzione di Adriana Motti
Adelphi, 1980
pp. 319, € 18

Questa vita tuttavia mi pesa molto – Edgardo Franzosini

UNA STAGIONE DA LEGGERERubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

AUTUNNO – Questa vita tuttavia  mi pesa molto

Con la nuova rubrica UNA STAGIONE DA LEGGERE proviamo a parlare di libri seguendo il ritmo delle stagioni per ritrovarle tra le pagine letterarie.

Da pochi giorni è iniziato l’autunno e leggendo l’ultimo sforzo letterario di Edgardo Franzosini, Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi, 2015), scopriamo fin dalle prime pagine una cornice autunnale alla storia di Rembrandt Bugatti.

(…)
«Che tempo, Dio mio! Inizia proprio bene l’autunno» dice la custode stringendosi in una specie di scialle di pelo di pecora, giallo e sudicio, che, appena comincia il freddo, Madame Soulimant si mette sulle spalle. «Ho letto sul “Matin” che è colpa delle cannonate, delle scariche d’artiglieria. Sono loro che provocano la pioggia!».

(…)
«È stato al mercato, Monsieur Bugatti?» domanda ancora la custode all’inquilino, alzando un po’ la voce per farsi sentire.
Le otiti croniche hanno reso Rembrandt quasi sordo. Un anno fa ha iniziato a sentire fitte dolorose, fischi, ronzii e la propria voce che gli risuonava alle orecchie. I rumori hanno preso ad assomigliare tutti a un brusio. Riesce ancora a distinguere solo i versi degli animali – i barriti, i ruggiti, i nitriti – e al pensiero di questa cosa non può fare a meno di sorridere.

Chi è Rembrandt Bugatti? Fu uno scultore milanese (1884 – 1916) appassionato di animali selvatici, divenuto celebre a Parigi negli anni Dieci del Novecento e oggi dimenticato. Fratello minore di Ettore Bugatti, il fondatore della omonima casa automobilistica, visse in una sorta di struggente empatia con i suoi “modelli” (babbuini, elefanti, gazzelle, pantere, leoni, rinoceronti, antilopi) tra Milano, Parigi e Anversa. Fuggito «dalla noia di Milano» si trasferì ad Anversa, dove visse in prima linea i drammi della Grande Guerra.

(…)
Rembrandt ha messo per la prima volta piede in Belgio all’inizio dell’autunno 1906. «Ho saputo che è appena arrivato un rinoceronte stupendo» così ha detto al padre, senza ulteriori spiegazioni, già pronto per la partenza.

(…)
Rembrandt non si preoccupa nemmeno di cercarsi un alloggio: con la valigia in mano, sotto nuvole cariche di pioggia, si presenta direttamente alla biglietteria del giardino zoologico. Aspettando il suo turno in coda; guarda impaziente i due mosaici che ornano l’ingresso: una tigre che combatte con un serpente e un leone dalla bocca spalancata che ruggisce con indolente ferocia.

(…)
Il fuoco di sbarramento dell’artiglieria e i tiri di due batterie montate su treni blindati non bastano più a tenere le posizioni fortificate, l’allagamento delle campagne intorno ad Anversa rallenta ma non ferma gli assedianti, le due cinture difensive si spezzano e infine cedono, l’una dopo l’altra. La notte del 7 ottobre i mostruosi obici tedeschi vengono rivolti contro la città; i cannoni belgi ammutoliscono del tutto di fronte alla superiorità del nemico. Il 10 ottobre il borgomastro offre ai Tedeschi la capitolazione.

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Gli effetti della Grande Guerra furono devastanti per il raffinato Bugatti che cadde in una profonda depressione quando fu presa l’orribile decisione di abbattere tutti gli animali dello zoo di Anversa.

(…)
La mattina seguente nel pallido cielo autunnale sopra lo zoo volano in cerchio i corvi. L’odore della polvere da sparo ristagna a lungo nell’aria e si mischia con il fetore dei corpi che fermentano e imputridiscono. Nella fretta non si è pensato che la capacità del forno crematorio è ridotta, mentre la quantità di animali è sterminata. Nell’attesa le carcasse vengono accatastate vicino alla recinzione, e l’odore del sangue attira per giorni branchi di cani randagi.

A 32 anni, in una gelida giornata del gennaio 1916, Rembrandt Bugatti si tolse la vita.

(…)
Per leggere il necrologio di Rembrandt più commosso e forse più esatto bisogna attendere le parole di Giulio Ulisse Arata che, qualche settimana più tardi, scrive sulle pagine di una rivista d’arte che si stampa a Milano: «Bugatti aveva vissuto nella vita come un estraneo, ed è morto come lo sconosciuto che cancella dietro di sé ogni traccia della sua esistenza».

Edgardo Franzosini, nato in provincia di Lecco nel 1952, è tra i più raffinati scrittori italiani contemporanei. Tradotto con successo in Francia, Spagna e Germania, ammirato tra i tanti anche da Antonio Tabucchi, è uno di quei rari scrittori capaci di rimanere impressi oltre la pagina scritta. Non è tipo da piegarsi alle mode e segue un proprio percorso letterario iniziato con Raymond Isidore e la sua cattedrale, la storia di un custode di cimiteri che ideò una cattedrale interamente costruita con detriti e oggi considerata un luogo d’arte con visitatori da tutto il mondo (a Chartres, Francia). Proseguito con Bela Lugosi. Biografia di una metamorfosi, storia dell’attore di origine ungherese giunto a Hollywood alla fine del 1923, impostosi in un centinaio di film come il primo riconosciuto Dracula del grande schermo e uomo tormentato dagli eccessi e dalle passioni sfrenate. Fino a Sotto il nome del cardinale, storia misconosciuta a molti di Giuseppe Ripamonti, lo storico seicentista che ispirò a Manzoni I Promessi Sposi e processato dall’Inquisizione per finire incarcerato nelle segrete del palazzo arcivescovile di Milano. Tutti pubblicati per Adelphi.

franzQuesta vita tuttavia mi pesa molto
Edgardo Franzosini
Adelphi, 2015
pp. 117, € 12

Raccontare il mondo attraverso il viaggio (2) – Cina

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In occasione della settima edizione del Festival della Letteratura di Viaggio, in programma a Roma dal 25 al 28 settembre, proponiamo un breve estratto di Cina e altri orienti di Giorgio Manganelli (Adelphi, 2013).

«L’uomo è un animale viaggiante; mi pare che codesta peculiarità sia più bizzarramente significativa, più specifica di molte altre, raramente nobili, qualità che l’animale uomo è in grado di sfoggiare…Vi sono uomini che viaggiano poco, o di rado, e per brevi tratti; altri che viaggiano ininterrottamente, anche solo per offrire dentifrici e raccontare storielle di provincia; molti viaggiano in enormi comitive, con cestini e bottiglie e bare e sporcano il mondo con cartacce unte e diamanti perduti. Altri amano il viaggio lungo, solitario, in luoghi improbabili, tra gente che parla lingue ignote e mangia cibi inquietanti. Ma viaggiare si deve, si vuole. È da supporre che viaggiare risponda ad un impulso oscuro e magico dell’uomo, qualcosa che egli non sa contrastare…

Cina_e_altri_orientiNessuno di noi è Ulisse, e neppure Sinibad, che non temette il volo dello sterminato uccello Rok, o Marco Polo, che attraversò le tenebre magiche dell’Asia, imparò il tartaro, e governò le idolatre e mirabili terre della Cina. Ma non crediamo al monito del Tao Te King, che voleva l’uomo felice e pacifico nel suo villaggio…Potremmo supporre che il viaggiatore sia un uomo né felice né pacifico; ma afflitto da una infelicità incanaglita, trista, che lo fa gregario rumoroso, o solitario vagabondo. Oggetti inconsueti muovono in noi subitanei sussulti di vita, e i luoghi ignoti tendono i nostri nervi; ammiriamo ruderi, ci mescoliamo alla folla rumorosa di bazar esotici, assistiamo ai riti di religioni che conoscevamo solo sui libri; mangiamo cibi che il nostro palato esplora con curiosità.

In due, tre settimane, speriamo di incontrare i nostri Lestrigoni, le Circi, attraversare nebbie magate, e solcare mari immalinconiti dal canto irresistibile e inutile delle Sirene. Esiste un’Itaca? Misuriamo insieme la profondità della nostra solitudine e l’altezza della nostra speranza. Vorremmo in pochi giorni quello che Ulisse conseguì in dieci anni di navigazione ostinata: diventare Nessuno».

 CINA

«Se qualcuno ha in mente una città taciturna e spaziosa, amplissima, popolosa e tuttavia quasi dovunque radamente abitata, nella quale le voci umane si perdono, costui certamente immagina Pechino; se qualcuno si figura una città geometrica, astratta, un quadrato attorno ad un quadrato con viali predisposti come itinerari per il vento, un vento severo e senza volto; una città di angoli retti, rare curve, una piazza di arcaica grandezza; percorsi che si fingono, per la coerenza delle linee, assai più lunghi di quanto non siano; una città appena sollevata sul suolo, da sembrare disegnata, un plastico, una coincidenza di città e mappa; costui, non v’è dubbio, sta sognando Pechino; se poi qualcuno scorge una città insieme proletaria e imperiale, umile e crimoniale, tale da accogliere i recenti riti degli Uguali e i segni degli antichi riti degli imperatori, ed anche oscuramente farli toccare, costui può trovarsi solo a Pechino. Roma è plebea e nobilesca, Parigi sa di alta borghesia e popolo folcloristico e rissoso, Londra è malinconica e impiegatizia. Ma Pechino non pare aver conosciuto condizioni intermedie tra quella imperiale, protrattasi per secoli, e questa di oggi, degli uomini vestiti di blu».

Pechino (Jason Lee, Reuters/Contrasto)

Pechino (Jason Lee, Reuters/Contrasto)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Anna Lucia Nicosia (aprile 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Anna Lucia Nicosia

Anna Lucia Nicosia è romana di nascita, siciliana di indole, sarda per passione, piemontese d’adozione. Nella vita ha scelto di occuparsi di comunicazione, ma forse i Savoia hanno scelto per lei, mettendola fin dall’infanzia nella difficile situazione di conciliare in un’unica immaginaria lingua fantasma, che alcuni si divertono a chiamare italiano, le varie anime di famiglia, dialetti, mentalità, storia e costumi. Scrive in realtà perché non ama parlare. Per lo stesso motivo, adora ascoltare e osservare tutto e tutti. Tenta inutilmente da anni di non fare più politica. Ha aspettato impaziente per anni che i suoi figli crescessero per potere fare grandi cose, ma poi si è accorta che le grandi cose le aveva già fatte ed erano proprio loro. Fin da piccolissima frequenta tutte le librerie di Roma, grazie a un papà poco comunicativo, ma molto lettore e collezionista compulsivo di carta stampata. Arrivata alla soglia dei cinquanta e dopo tanto peregrinare, ha trovato il suo porto sicuro e non poteva che essere una libreria. Storica, piccola e specializzata nel mare, ci ha trovato dentro tutto quello che le serve per essere felice: amore, lavoro, divertimento e qualche soddisfazione.

Il mio comodino è come una tavola imbandita. Ospita più portate. Ognuna ha il suo perché. Non possono mancare libri che stuzzicano l’appetito, libri che è bene leggere per crescere, libri che si divorano per gola, libri che ti riempiono quando hai tanta fame, libri che fanno scoprire nuovi sapori, libri consolatori per il fine serata. Ce ne deve essere uno di ogni tipo sul mio comodino, pena una strisciante insoddisfazione che non tarda a trasformarsi in insonnia.
Rabbrividiranno i più, ma i libri del mio comodino subiscono una drastica selezione anche in base al formato e al peso. Oltre una certa taglia infatti passano ad essere libri da divano, più su esistono i libri da colazione, e infine i libri da studio, è una questione pratica legata alla loro godibilità nelle diverse situazioni. I libri da comodino devono consentire il massimo confort in qualsiasi posizione si decida di leggerli: sdraiati a pancia in su, su un fianco, seduti, con un cuscino oppure due, indispensabile poterli tenere con una mano sola, per poterli fare scivolare senza gravi conseguenze quando il sonno prende il sopravvento. Quindi leggerezza e maneggevolezza sono indispensabili.

Il mio comodino di oggi prevede nove portate.

Per crescere, ottimi Simboli al potere di Gustavo Zagrelbesky (Einaudi, 2012) e Lezioni americane di Italo Calvino (Garzanti, 1998). Se è vero, e per me lo è, che non si può non comunicare e non si può non fare politica, direi che questi due piccoli libri fanno parte del mio pacchetto sopravvivenza.

Per gola non rinuncio alla narrazione naturale e delicata di Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, 2013). La nostra piccola Italia quotidiana vista con gli occhi della mia generazione. Libro facile e di compagnia.

Se però la fame è seria, c’è bisogno di cibi sostanziosi. Il posto se lo contendono in quattro al momento.  Ballando a notte fonda di Andre Dubus (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 1996), racconti conosciuti grazie a una splendida presentazione ascoltata alla Libreria Fahrenheit di Campo dei Fiori, e strettamente connesso a quest’ultimo Le undici solitudini di Richard Yates (traduzione di Maria Lucioni, minimum fax, 2006) che inserirei anche fra i nuovi sapori.

Strascico dell’otto marzo appena passato Foxfire di Joyce Carol Oates (CDE, 1993), da poco trasposto al cinema per la seconda volta, e per la seconda volta con poco successo. Il libro ha una narrazione densa, dialoghi minuziosi. Ci vuole impegno e costanza per immergersi nella storia, ma una volta entrati è difficile sganciarsi. Un mondo femminile molto poco convenzionale, per nulla frivolo, fotografato in modo spietato, nelle sue durezze, sofferenze e intricati rapporti di forza e d’amore.

Chi ti credi di essere di Alice Munro (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 2012) è sul comodino prima di tutto perché me lo ha regalato mia figlia, e quindi è entrato fra i miei preferiti un po’ da raccomandato. Chi ti credi di essere? però non ha tardato a farsi amare per i suoi meriti. Sempre nel mondo femminile, a tinte decise, ma se la Oates ha dipinto a olio, la Munro usa tempere leggere per raccontare le sue storie. Direi che potremmo inserirlo anche fra gli aperitivi rinforzati.

I dolcetti finali sono lì ad aspettarmi fedeli ormai da anni. Sono un po’ come le preghierine della sera. Sempre le stesse, ma ogni sera con un significato diverso. Vista con granello di sabbia di Wislava Szymborska (a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, 1998), e Poesie d’amore di Nazim Hikmet (Mondadori, 2002). Ho provato a sostituirli, ma senza successo. Del resto sarebbe come cercare un degno sostituto della cioccolata fondente. Lo sanno tutti che è impossibile.

Infine, Biografia intima di Edward Hopper di Gain Levin (traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi, 1995). La biografia di Hopper se ne sta lì appoggiata da tempo immemorabile. Fa parte dei libri da colazione, ed è stata divorata e digerita da alcuni anni. Ma mi ricorda il bello, il silenzio, la solitudine e l’emozione di una mostra romana goduta con una rara intensità. Insomma Hopper l’ho nominato senatore a vita e la sua presenza deve essere garantita in ogni stanza della casa e senza limiti di tempo.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Anna Lucia Nicosia