Archivi tag: 8×8

RACCONTI ITALIANI #4#5 – Intervista a Luca Romiti, una voce alla ricerca di sé

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Luca Romiti, romano di ventinove anni, quando ne aveva quattordici ha subìto un trauma leggendo  Samuel Beckett, dal quale non si è ancora ripreso. Ha iniziato a scrivere per necessità, poi per passione. Con la sua “voce”  fuori dal coro ha vinto le ultime due edizioni di 8×8, il concorso letterario dove si sente la voce (appunto). La sua scrittura arriva da poche ma insistenti letture, come Beckett o Berto.  Ora sta provando a adattare la forma racconto a un romanzo. Aspettiamo di leggere come è andata.

I suoi racconti Bologna è un enorme posacenere e Quasi si potesse

Sei nato a Roma e vivi a Roma, hai fatto il liceo scientifico e ti sei laureato in Lettere moderne  Puoi aggiungere qualche altro dettaglio a questa stringata presentazione?
Ho fatto la triennale e La Sapienza e subito dopo la laurea ho frequentato il corso principe per redattori editoriali di Oblique studio; poi mi sono trasferito qualche mese a Milano per uno stage nella casa editrice Indiana editore. Da Milano sono andato a Bologna per la magistrale e da Bologna a Torino per il biennio della Scuola Holden. Da un anno sono tornato a Roma.

Sei forse l’unico (a mia memoria) che ha vinto per due volte di seguito (quest’anno e nel 2018) il concorso letterario 8×8 ideato da Oblique. Complimenti, mi viene da dire, ma anche, perché tornare sul “luogo del delitto”?
Quest’anno ho scritto un racconto con uno stile particolare, molto diverso da quello scorso, e volevo metterlo alla prova. Avevo appena finito di leggere La cosa buffa di Giuseppe Berto e la sua voce mi aveva colpito molto. Allora ho scritto quel racconto, che per lo stile e in effetti anche per quel poco di storia che c’è è molto ispirato da quella lettura. Qualche giorno dopo è uscito il bando del concorso e l’ho inviato senza pensarci troppo. 8×8 è un bel concorso: ti permette di essere letto dagli addetti ai lavori e di entrarci in contatto, anche tramite l’editing; ricevi critiche e apprezzamenti che possono essere utili a dare una direzione a quello che scrivi. Insomma, è un modo per crescere, per farsi leggere e conoscere. E poi, ovviamente, per essere l’unico a vincerlo due volte.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Ho cominciato a scrivere quando ho iniziato il liceo, ero abbastanza sfigato e quindi ho aperto un blog. Se me l’avessi chiesto allora avrei detto necessità: quella cosa per cui scrivere è l’unico modo per esprimere qualcosa che non riesci a tirare fuori in un altro modo. Scrivevo molto male. Questa fase è durata forse un po’ troppo, più o meno fino a ventitré anni. Poi, per fortuna, ho cambiato approccio. Direi che è conseguenza di una passione; per che cosa, di preciso, non lo so. Per la lingua, forse. Per un modo specifico di vedere le cose.

Samuel Beckett

Beckett diceva che «forse solo l’artista può finire per vedere (e, se si vuole, far vedere ad alcuni per i quali egli esiste) la monotona centralità di ciò che ciascuno vuole, pensa, fa e soffre; di ciò che ciascuno è». E questo focolaio lo chiama bisogno. Subito dopo dice che è il bisogno di avere questo bisogno a fare l’arte. Beckett era fissato con ciò che ciascuno è; ma penso che scrivere possa darti delle buone coordinate per capirlo (e, se si vuole, farlo capire ad alcuni). È quello che diceva Rezzori, che scriveva «per conoscere i segreti dell’io che non può mai andare perduto nonostante tutti i cambiamenti che attraversa nel corso della vita». Quello che scrivevo al liceo è davvero brutto e mi vergognerei a leggerlo al mio gatto; ma posso riconoscerci dei tratti di quella persona che diceva “io” a quattordici, quindici, ventitré anni.

Mentre leggevo Bologna è un grande posacenere mi è venuto in mente Thomas Bernhard. Senza alcuna velleità di trovare i tuoi modelli letterari, vorrei solo evidenziare come la tua “voce” sia risultata immediatamente fuori dal coro, distante dai canoni stilistici più tradizionali. Puoi provare a spiegare come si è formata?
Nel caso di questo racconto la voce è derivata, come ti dicevo, dalla lettura di Berto – da La cosa buffa più che da Il male oscuro. Lo stile dei due romanzi è molto simile ma forse nel Male oscuro è ancora più estremo; ne La cosa buffa, anche per l’uso della terza persona, è più controllato e dà un po’ più di respiro al lettore.  È un tipo di voce che mi interessa, ansiosa di parlare ma allo stesso tempo molto preoccupata di essere compresa. Scrivere con quella voce è anche un ottimo esercizio: mette in evidenza tutti i tic linguistici, le scelte “facili”; la quasi totale assenza di punteggiatura impone un controllo su tutta la struttura della frase. In generale direi che si è formata con le letture, poche ma piuttosto insistenti.

Eudora Welty diceva che nel racconto non importa la fine ma come ci si arriva. I tuoi racconti, essenziali ma ricchi di dettagli, soddisfano in pieno questa caratteristica. In 8000 battute sei riuscito a raccontare un mondo intero, lasciando comunque libero il lettore di interpretare e concludere. È un risultato straordinario di cui sei consapevole?
Non la conosco, ma sono d’accordo con Eudora. Il finale, e la storia in generale, non mi interessa molto, né in quello che leggo né in quello che scrivo (e questo, soprattutto nell’ottica di un romanzo, è un problema abbastanza grosso). Qualcun’altro diceva che il racconto è un pezzo di storia a cui manca il prima e il dopo. In genere ho in mente un’immagine, piccola, precisa e banale (un pranzo dalla nonna; due fratelli che cercano insetti; un ragazzo che lascia una ragazza dicendole “ti amo”) e comincio a scriverci intorno. Poi, se è un buon racconto, non parlerà solo di quello. Non sono consapevole di come ci arrivo e spesso mi capita di arrivarci senza rendermene conto. Però credo di essere bravo a capire se, alla fine, ci sono riuscito oppure no.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Nel tuo caso il racconto sembra essere la naturale conseguenza di una vocazione. Pensi di poterla “adattare” a un futuro romanzo?
Ci sto provando. Il progetto a cui sto lavorando adesso potrebbe essere una specie di adattamento di quella forma al romanzo, come già ce ne sono state tante (penso a Felici i felici o a Tutto quello che non ricordo). Il mio problema però rimane la storia: quel prima e dopo che nei racconti non compare ma che in un romanzo è necessario.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Hai citato tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante nella tua vita. Puoi spiegarci che cosa? Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Nella mia famiglia leggeva solo mio padre, e leggeva solo classici. Io ho cominciato alle medie, prendendo libri a caso dalla libreria. Quasi sempre mi imbattevo in libri non proprio adatti. A dodici anni, per esempio, ho pescato Frammenti di un discorso amoroso. Trauma. Pensavo che i libri fossero una cosa esclusivamente da grandi e quindi volevo leggerli; ma non li capivo. Poi, finalmente, sono incappato nella saga dei Malaussène. Ma è stato un caso. Ho ricominciato a pescare a caso e all’inizio del liceo ho letto Watt di Beckett. Altro trauma, ancora non superato. Penso sia da lui che derivi l’ossessione per la lingua. Leggo poco, comunque. Ritorno spesso ai libri che conosco, mi piace rileggere piuttosto che leggere. Ho conservato un approccio infantile: prendo un libro, lo comincio, mi stanca subito, lo abbandono, ne comincio un altro e così via. Poi torno a quello che conosco.
Riguardo ai libri che ho citato: Casa d’altri è un racconto lungo, la  cui storia sta dentro una parentesi (un prete viene mandato in un paesino sperduto sull’Appennino e forse si innamora di una vecchia); ma la lingua è ipnotica, sembra una cantilena. Ci puoi leggere frasi come «Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così.», oppure «Era vero, e così respirai». Il Tristram è forse il libro più divertente che ho letto; uno dei primi che ha giocato con la struttura del romanzo. Le storie mi interessano poco: mi piacciono i libri che si distinguono per la voce, che continuano a parlarti e a suggerirti un modo di vedere le cose.

Qual è la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Non saprei dirti com’è fatta. A dire il vero, in libreria, non ci vado quasi mai. Continuo a rubare i libri da quella di mio padre, quando mi capita di andare a casa sua. Oppure li compro usati (in via Silla, a Roma, c’è una libraia sommersa dai libri: è incredibile, ma sa dove trovare ogni libro che le chiedi). C’è una libreria in cui passo sempre quando capito a Bologna, ma solo perché è a fianco al bar.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I libri sul comodino sono la conseguenza di quell’approccio infantile (e del mio disordine). Alcuni sono lì da chissà quanto e non li ho neanche aperti; alcuni li tengo come amuleti, altri non so come ci siano arrivati. Ora sono questi: Nemico, amico, amante… di Alice Munro; Gli scrittori inutili di Ermanno Cavazzoni; Vizio di forma di Thomas Pynchon; Renuntio vobis di Sergio Claudio Perroni; La cosa buffa di Giuseppe Berto; Sillabari di Goffredo Parise; Watt di Samuel Beckett; Il pataffio di Luigi Malerba.

*Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscuro di Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI #5 – Quasi si potesse

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Quasi si potesse di Luca Romiti ha vinto la decima edizione di 8×8 (maggio 2018) ed è uscito sulla rassegna Retabloid (maggio 2018) di Oblique. Qui l’intervista.

di Luca Romiti*

When you love a woman
you tell her that she’s the one
’cause she needs somebody to tell her
that it’s gonna last forever.
Sigla di Il segreto

 

Luca Romiti

Nonna dice Ho incontrato la signora dell’interno 8. Le finestre sono appannate e le padelle fumano più del normale. Dico Nonna, fa un freddo della Madonna qua dentro. Eppure, nonna ha acceso i termosifoni stamattina. Dice Ho acceso stamattina, chettedevodi’?, e non si volta. La raggiungo piano, la abbraccio da dietro e lei fa un piccolo sobbalzo. Fino a qualche tempo fa, dopo averla abbracciata la pizzicavo sui fianchi e poi le facevo il solletico: appena la toccavo faceva un piccolo sobbalzo, poi diceva Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Dice Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Nonna è grassa, eppure è dimagrita. Con le mani stringo la pancia sotto al grembiule. Dice So’ dimagrita, eh.
Dietro i fornelli c’è nonna, dietro nonna ci sono io, dietro di me c’è il tavolo apparecchiato per due senza l’acqua il vino la gassosa, e dietro il tavolo c’è la televisione che manda in onda la sigla della puntata (Oddio me inizia la puntata; Ieri me so’ persa la puntata; Zitto, zitto: c’è la puntata). La telenovela è Il segreto; la stagione è la quinta: El chico de los tres lunares; la puntata è la numero millediciotto. Dietro la televisione c’è una portafinestra in vetro smerigliato, dietro la portafinestra c’è il terrazzo; se dopo qualche passo si gira a destra, costeggiando il muro della camera da letto e poi del salone, si arriva a una porta di metallo che si apre male, si chiude male e è dipinta di marrone scuro, male; dietro quella porta c’è uno stanzino.
Nonna apre il forno e libera una nuvola di vapore che le attraversa tutto il corpo tranne le lenti degli occhiali. Dice Damme le presine, svelto su che non ce vedo niente. Ci arriva prima di me e dice Finisci d’apparecchia’, prendi l’acqua il vino la gassosa.
Metto le tre bottiglie sul tavolo e nonna mette la lasagna al ragù nei piatti: Ancora se lo ricorda, di quando t’ha trovato sul pianerottolo. Anche la lasagna al ragù fuma più del normale e il vapore mi scalda il viso. Porto le mani sul piatto per scaldarle, ma appena le tolgo l’umidità le raffredda ancora di più. Le strofino sui pantaloni per asciugarle e dico Ecco qua, un bel piatto di magma. Nonna infila la mano destra nella manica sinistra del golfino e ne estrae un tovagliolo ciancicato: si soffia il naso piccolo e rosso e poi ce lo rinfila. Sai che facevi?, quando venivi da me venivi col cuscino, e te riposavi a ogni piano. Io mica lo so chi è la signora dell’interno 8, che ancora se lo ricorda e ancora lo racconta a mia nonna, e ancora ride. Ancora ride, di quando t’ha trovato che ti riposavi davanti alla porta sua. Nonna, immagina che tu sei il tempo, in generale, tu sei il tempo, mentre prepari le lasagne, stiri, fai l’uncinetto, mentre guardi la televisione, tu sei il tempo, te ne stai qua, eterna, e poi arriva qualcuno e ti spiega cosa sono le lancette. Delinguente, dice nonna, mangia invece de di’ stupidaggini, ché se fredda. «Berta, perché fai tutto questo per me?», «oh, Bosco, beh, lo faccio perché mi fa piacere. Sono contenta che tu sia tornato sano e salvo». Dico Nonna, come fai a guarda’ ’sta roba? Me fa passa’ il tempo, dice nonna, E poi me piace gli abiti, i vestiti, questi so’ quelli di una volta. «Grazie, Berta, andrò a dividere il formaggio con gli altri», «no! No, Bosco! Questo formaggio è solo per te!». Dice Ecco, vedi?, vedi com’era un tempo?, erano tempi difficili.

Nonna si volta, mi guarda: dice Allora? Che vogliamo fa’? Le metto le mani sulle guance, la guardo negli occhi piccoli umidi e azzurri e dico Nonna, ti prego, il caffè: fallo tu. Dice Sì vabbe’ vabbe’ vai a prende la droga, vàivài, nello stanzino. Lo stanzino di nonna è la sezione dedicata alle scorte alimentari nel bunker di un americano ossessionato dalla fine del mondo. Però c’è l’Anice Secco Speciale Varnelli che nonna compra al Vaticano. Torno in cucina con la droga e dico Nonna, fa più freddo dentro che— attenta che sbatti! Nonna si gira verso di  me: sta finendo di stringere la caffettiera con uno strofinaccio, sotto l’anta dello scolapiatti aperta sulla testa. Dice Nònnò, non ce sbatto più sa’, guarda. L’anta le sfiora i capelli. Me so’ accorciata, vedi? Mo’ ce passo, fino a qualche giorno fa ce sbattevo, adesso mica ce sbatto: me so’ proprio accorciata.
Il tavolo è attaccato a una parete la cui metà superiore è sostituita da tre grandi finestre: si vede il muretto del terrazzo e più in là l’urbanistica sconclusionata di via della Pisana. Nell’angolo destro, in fondo, c’è un palazzo grigio che è un grosso cilindro; ha tre finestre, lunghe, nere e sottili. Nonna guarda attraverso i vetri, con il mento appoggiato sulla mano. Chissà che è quello, dice a bassa voce, so’ proprio curiosa. Fino a quando non ha smesso di dirmelo, nonna mi ha detto che lì ci abita l’orco, e che sarebbe venuto se non avessi finito di mangiare. Dico Lì ci abita l’orco, a meno che nel frattempo non si sia trasferito. Nonna non si muove, continua a guardare fuori, e quello che c’è fuori sembra una cosa lontana, una cosa che forse neanche esiste: Eh, dice, una volta ci dobbiamo andare, così, per vedere.
Mi alzo e metto le tazzine nel lavandino, dico Vuoi che t’accompagno a letto? Sì, lascia tutto così, dice, lo faccio dopo, adesso so’ proprio stanca. Chissà come mai so’ così stanca.
Nonna si sdraia sul letto, si toglie gli occhiali e li appoggia sul materasso, accanto al telefono di casa: Me deve chiama’ il dottore, dice, sta’ attento agli occhiali, eh, ché c’ho solo quelli. Nonna sbadiglia e si porta il dorso della mano davanti alla bocca. Allora senti, dice, stamattina so’ andata al fioraio, e ho fatto le scale, no?: beh prima me stancavo al terzo piano, dove sta la signora dell’interno 8, adesso no, già al secondo me devo riposa’.
Eh sì, dice mentre s’addormenta: ormai so’ stanca prima.

Editing di Giulia Caminito 

Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscurodi Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI#4 – Bologna è un enorme posacenere

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Bologna è un enorme posacenere di Luca Romiti ha vinto l’edizione 8×8, 2019, just one night, è uscito sulla rassegna Retabloid di Oblique (maggio 2019). Qui l’intervista.

di Luca Romiti*

Luca Romiti

Non riesce a prendere sonno perché vorrebbe essere nel letto d’Elisa e magari farci l’amore, per il godimento che ne deriverebbe ma anche e forse più come dimostrazione del fatto che in fondo l’amore c’è ma no, si corregge, non dimostrerebbe un bel niente, è questo uno dei tanti insegnamenti che Elisa in un anno ha avuto modo di dispensargli e che lui si sforza di condividere, e cioè che scopare non dimostra un bel niente, è un’attività come un’altra che dunque capita raramente di fare con chi si vorrebbe anzi sarebbe strano il contrario ma nella vita bisogna pure accontentarsi, e mentre comincia a verificare i progressi che ha fatto in ognuno di questi ostici insegnamenti i vicini di casa iniziano a scopare, e pensa che loro si curino ben poco delle consuetudini teoriche e perfino se ce ne sono di quelle pratiche relative all’accoppiamento, a giudicare dalle curiose urla che gli arrivano in camera tra le quali riconosce quelle d’eccitazione di godimento e d’orgasmo imprevedibilmente combinate con quelle di sorpresa di paura e di divertimento, in un’orgia acustica che lo spinge a infilarsi una mano nelle mutande, e nell’istante in cui cerca di sopperire alla curiosità con l’immaginazione l’inquilino del piano di sotto urla di smetterla, ché non siamo mica in un film porno, e lui allora sfila la mano dalle mutande e ricomincia a pensare che questa storia d’Elisa che non lo ama è davvero un peccato ma non ci si può svegliare ogni giorno nella speranza d’essere amati, e dunque s’addormenta con la convinzione che stanotte sarà l’ultima passata in attesa dell’amore d’Elisa perché domani porrà a malincuore ma per il benessere mentale fine a questa storia d’amore che non era per nulla infinita come s’era convinto che fosse.

C’è da mettere al corrente di questa risoluzione il suo coinquilino, con il quale ha già condiviso l’inizio e lo svolgimento per quanto in effetti di svolgimento non ce ne sia stato molto visto che di svolte nella loro storia ce ne sono state ben poche, e dunque appena si alza imbocca il corridoio, arriva fino alla porta della camera del coinquilino e la apre con un gesto piuttosto deciso nella speranza che sia sufficiente a svegliarlo, ma quello continua a dormire come è solito fare e cioè a pancia in su abbracciato al cuscino prospettando la necessità di un gesto ancor più deciso che è quello di aprire la finestra che non dà come la sua sulla camera dei vicini che scopano ma su quella delle dirimpettaie transessuali buddhiste che stamattina sono riunite in preghiera con una mezza dozzina di correligionarie, e assieme alla luce e all’aria fresca naturalmente attendibili s’infila nella camera un mantra gutturale che finalmente sveglia il coinquilino.
Affacciato alla finestra gira due sigarette e poi comincia a esporre la sua decisiva presa di posizione al coinquilino che dopo un continuo adeguamento delle espressioni del viso ai diversi momenti della storia lo distende su una rassegnata consapevolezza, alla quale segue la considerazione che questa storia si potrebbe definire un asintotico avvicinarsi al momento della svolta e che è stato proprio questo continuo avvicinarsi a una svolta che per conto suo continuava ad allontanarsi a risultare alla lunga estenuante, e infine si dichiara d’accordo con questa risoluzione nei cui innegabili seppur graduali benefici confida, e deducono che allora è questo il momento della svolta, il punto in cui finalmente l’asintoto tocca la curva, il punto in cui l’infinito è arrivato alla fine e si dimostra in tutta la sua finitezza perché la loro storia d’amore non tende a un bel niente e anzi tende alla fine perché è solo uno dei tanti segmenti della vita che a un tratto non esiste più, e ora che non c’è più niente da dire lui e il coinquilino rimangono in silenzio ad ascoltare il mantra buddhista e transessuale e poi buttano i mozziconi di sotto e guardandoli cadere s’accorgono che Bologna è un enorme posacenere.

Adesso che sono seduti sulla panca del bar di fronte alla casa di Elisa dove sempre si danno appuntamento dire a Elisa che non è più il caso di vedersi non è affare semplice, e per convincersi a farlo confessa di avere una cosa da dire in modo da costringersi poi bene o male a dichiararle la svolta cui certamente a insaputa di lei sono arrivati, ma come s’aspettava le parole per farlo non gli vengono in mente e allora la guarda per farsi coraggio ma ottiene invece l’effetto contrario perché la trova bella come la trova ogni giorno e il suo proponimento vacilla e gli sembra anzi un proponimento affatto sciocco e forse anche arrogante quello di mettersi contro l’infinità di una storia d’amore, e allora prima di tutto decide di non guardarla più e poi trascorre qualche secondo che raggiunge forse il minuto in attesa che gli vengano le parole, finché Elisa con un tono scocciato gli chiede quale sia dunque questa cosa che ha da sentire e che tanto si fa attendere e lui in mancanza d’altro gli ripropone la collaudata metafora dell’asintoto in risposta alla quale Elisa dice tuttavia che non sa cosa dire, un paradosso che andrebbe pure d’accordo con la metafora e potrebbero allora continuare in eterno a dirsi che non sanno cosa dirsi, nell’attesa che una benedetta frase prima o poi esca dalle loro bocche, ma lui ha deciso che d’aspettare non ha più voglia e che anzi quest’attesa è inutile perché ormai ha capito, ha capito cioè che per lei potrebbe davvero continuare così e che deve perfino essere lui a prendersi la briga di essere lasciato, e in conclusione una frase gli viene e gli viene talmente spontanea che quasi non s’accorge di dirla, e cioè dice a Elisa che è proprio questo che gli fotte l’anima; e Elisa ride.
Non sa se a far ridere Elisa sia stato il fatto che lui avesse un’anima o che l’avesse dichiarato senza troppi giri di parole o che la sua anima potesse essere fottuta o che fosse proprio lei a fottergliela, ma gli è sembrata in ogni caso una dichiarazione nient’affatto risibile e dunque si alza convinto ad andarsene, ma Elisa si alza a sua volta, attraversa la strada, va verso il portone di casa e poi rimane lì ferma, e lo guarda.
Lui si gira una sigaretta mentre aspetta di capire con quale intenzione Elisa abbia compiuto questo gesto, se cioè abbia deciso di raggiungere il portone per entrarci da sola e constatare così la fine di questa storia d’amore infinita o se invece sia una specie di invito a entrare a casa con lei, ma come c’era da aspettarsi il gesto d’Elisa si dimostra carente d’intenzioni tanto che una volta che s’è fatta raggiungere non dice niente e prende le chiavi nell’attesa che sia lui a dirle cosa fare, e lui invece le dice che questa è l’unica situazione che a Elisa pare sopportabile, quella di starsene sull’uscio senza decidere se la storia continua con loro che entrano a casa insieme o continua che finisce, ma Elisa continua a non decidere un bel niente e stavolta tiene fede al fatto di non aver niente da dire ratificando in silenzio la fine di questa storia d’amore.

Ora che l’infinità s’è consumata del tutto lui comincia a temere per ciò che è rimasto, e prima che l’operoso silenzio d’Elisa s’accanisca pure sull’amore e chissà mai infine pure sulla storia facendo come si dice terra bruciata di tutto quello che c’è stato decide di mettere definitivamente le cose in chiaro e allora butta il mozzicone a terra e prima d’andarsene per sempre dice una cosa che non le ha mai detto e che non avrà più la possibilità di dirle e cioè le mette le mani sulle guance, la guarda negli occhi e le dice: ti amo.

Editing di Claudio Panzavolta

Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscuro di Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

Al via la settima edizione di 8×8: anche i librai indipendenti nella giuria

8x8_2015_1Giunto alla sua settima edizione il concorso letterario dove si sente la voce, organizzato da Oblique, sta per entrare nel vivo.
Dopo aver selezionato i primi otto finalisti: Federico Fascetti, Damiano FinaEnrico LossoValentina MarescaMarco OrlandiManuela PiemonteElisa Sabatinelli, Matteo Girardi (qui i racconti), tutto è pronto per la prima serata, in programma a Roma martedì 24 febbraio a Le Mura, ormai sede ufficiale del concorso.
La casa editrice madrina è minimum fax, i giurati sono Nicola La Gioia, Alessandro Grazioli, Annalena Benini e Leonardo Luccone.

L’edizione 2015 è ricca di novità. Per la prima volta nella giuria, il 10 marzo, ci sarà la storica rivista Nuovi Argomenti, fondata da Alberto Carocci e Alberto Moravia nel 1953 e stampata da grandi editori come Garanti, Giunti e Mondadori. Madrina della serata del 7 aprile sarà invece la casa editrice L’Asino d’oro, che si è affermata con i libri di Massimo Fagioli, il celebre psichiatra della Teoria della nascita (è del 1971 il suo libro Istinto di morte e conoscenza che suscitò profonde reazioni). Infine, il 21 aprile sarà la volta di alcuni librai romani: libreria Assaggi, Maurizio Paolantoni della libreria Feltrinelli di viale Libia, Marco Iannelli della libreria Nuova Europa.

Perché la scelta di coinvolgere i librai indipendenti? «Perché sono più editori i librai degli editori» spiega Leonardo Luccone*. Ma qual è il ruolo di un libraio nella scoperta di un talento? Chi arriva in libreria con un libro pubblicato ha superato lo scoglio della ricerca di un editore, indipendentemente dalle sue effettive qualità di scrittore. «Ci sono librai talent scout – continua Luccone – ma non è questo che mi colpisce. Adoro le librerie che sembrano un piano editoriale: perché disposizione, raggruppamenti e percorsi rivelano tutto. Mi piacciono le librerie che rispecchiano la testa di qualcuno. Questo accade anche nelle librerie di catena. Si può essere indipendenti anche lì, come si può essere ottusi in una libreria indipendente».

E per concludere, anche quest’anno c’è 8×8 social award, il racconto più votato sui social.

Le serate, le madrine:

24 febbraio: minimum fax
10 marzo: Nuovi Argomenti
24 marzo: elliot
7 aprile: L’Asino d’oro
21 aprile: librai romani

Dove:
A Roma, Le Mura in Via di Porta Labicana, 34, alle 20.

*Leonardo Luccone è stato l’ospite del secondo incontro di Cosa si fa con un libro? l’11 dicembre 2014.

Un libro si pubblica. La parola all’artigiano dell’editoria. Leonardo Luccone (1)

 

locandina_11dic_webCOSA SI FA CON UN LIBRO? prima edizione Roma

Cosa si fa con un libro? Un libro si pubblica. La parola all’artigiano dell’editoria.
Giovedì 11 dicembre alle 21 – Leonardo Luccone di Oblique Studio

Leonardo Luccone di Oblique sarà il prossimo ospite di Cosa si fa con un libro?  In attesa di conoscerlo, ecco qualche anticipazione

 «Il primo consiglio che do a un mio corsista è di non partire pensando che sarà “impossibile”. Mentre il secondo e il terzo sono: “Ora devi dimostrarci che vuoi davvero fare questo mestiere”.

«La prima e più radicata falsa convinzione che tentiamo di sradicare è quella che non basta una generica passione (“l’amore per i libri”) e una presunta competenza linguistica (“mi sono laureata in lettere con il massimo dei voti”) per fare questo mestiere. Serve un amore viscerale, un’abnegazione, una passione più forte che in altre professioni. Un vero e proprio attaccamento alla causa che non ripaga quasi mai in termini monetari – i compensi se parametrati al numero di ore lavorate o all’anzianità sono, credo, tra i più bassi – ma, questo sì, dà una soddisfazione impagabile, l’idea di aver contribuito a qualcosa che rimane nel tempo».

Oblique Studio è uno studio editoriale e un’agenzia letteraria che collabora con molte case editrici italiane. Oblique Studio ha ideato e diretto le collane “Greenwich” e “Gog” per l’editore Nutrimenti. Oblique Studio, insieme a Ifix, da editore, ha dato vita a «Watt», una rivista-libro che riflette sul binomio narrazione-illustrazione. Oblique Studio organizza ormai da anni iniziative pubbliche per la diffusione della cultura editoriale (il concorso letterario 8×8, l’editoria nelle scuole e gli incontri di sensibilizzazione all’editoria). Oblique Studio è Leonardo Luccone, Elvira Grassi, Giuliano Boraso.

Per Leonardo Luccone l’editoria non si sogna e non si teme, ma semplicemente si fa. Il suo laboratorio artigianale ogni anno forma e avvia a un percorso professionale decine di allievi: molti di loro, oggi, sono redattori, editor, correttori di bozze, addetti all’ufficio stampa, traduttori, grafici e impaginatori.

Via dei Serpenti è nato dall’iniziativa di alcuni corsisti di Oblique. Ne abbiamo conosciuti altri, ad esempio: Filippo Nicosia, ideatore di Pianissimo – Libri sulla strada e oggi libraio di  Colapesce a Messina. Mauro Maraschi, editor di Hacca e di Caravan edizioni. Matteo Alfonsi, editor di Indiana (casa editrice milanese). Mara Bevilacqua, editrice di Armillaria, traduttrice e agente letteraria (MaBel Agency). Massimiliano Borelli, editor free lance e redattore de L’Orma editore. Massimiliano sarà l’ospite di Cosa fa con un libro? La parola all’editor il 6 marzo 2015.

 

Raffaele Riba, scrittore per umanità

di Emanuela D’Alessio

Per scrivere ci vuole la lettura e  il motivo per il quale Raffaele Riba ha deciso di diventare uno scrittore è soprattutto per umanità, per riuscire a far provare al lettore, anche solo per un istante «una specie di commozione, bella, forte, totale». In questa intervista ci parla di scrittura, lettura, del suo libro Un giorno per disfare, dei suoi esordi con il concorso 8×8, dei suoi progetti. Sul suo comodino ci sono  Francesco Maino,  David van Reybrouck e  Roberto Bolaño.

Raffaele Riba

Raffaele Riba

Hai 31 anni, sei nato a Cuneo, vivi a Torino, lavori alla scuola Holden. Che cosa aggiungeresti a questa brevissima nota biografica?
Nulla, forse c’è già troppo.

Tempo fa ho letto questa affermazione di Alessandro Baricco: «Per scrivere ci vuole follia, arroganza, direi perfino megalomania, perché se non hai un’alta idea di te stesso non cominci a scrivere un romanzo». Per te quali sono o dovrebbero essere gli ingredienti indispensabili per diventare uno scrittore?
Se vuoi scrivere hai già tutta una serie di cose dalla tua, la motivazione per esempio, inutile ritornarci. Quindi rimane un unico ingrediente, quello fondamentale (ma ai livelli della pasta per fare la carbonara): la lettura. In ogni sua forma, in tutte le salse. Una gran banalità. All’apparenza.

Sei uno scrittore per vocazione, necessità o casualità?
In una delle prime lezioni universitarie a cui ho assistito, vidi un’intervista a Ungaretti. Voce roca, dizione rimarcata sulle allitterazioni e i giochi di lingua, occhi semichiusi e incastrati in fessure strette per le rughe. Mi ricordo bene che, in un momento della lettura de I fiumi, sentii una specie di commozione. Bella, forte, totale. Sono tanti i motivi per cui scrivo, mi piace pensare che sia soprattutto per umanità, ma sicuramente inseguo l’obiettivo di far provare, anche solo per un attimo, anche solo a una persona, quella sensazione meravigliosa avvertita ascoltando Ungaretti. Sarebbe bello, un gesto umano appunto.

Lavorando alla scuola Holden sei a contatto quotidiano con la scrittura e le aspirazioni di molti di farne un mestiere. La mia domanda forse può apparire provocatoria, ma a che cosa servono le scuole di scrittura? Il talento non si insegna, così come non si insegna il modo per farsi pubblicare, o mi sbaglio?
No, non ti sbagli affatto. Non si insegna né il talento né il modo di farsi pubblicare. Chiunque vada in una scuola di scrittura per questo motivo ne sarà assolutamente deluso. Come dici nella formulazione della domanda, però, nella scrittura c’è anche una porzione di mestiere. Come per chi scrive sceneggiature o articoli di giornale o quarte di copertina, è necessario imparare, rispettare, riproporre o giocare con un certo canone; così, chi si mette lì a scrivere un romanzo o un racconto, deve sapere che ci sono delle dinamiche, dei movimenti, atavici e animali, che se rispettati creeranno una reazione nel lettore. Lo aveva capito bene Propp (per non parlare di Aristotele). In Italia abbiamo una tradizione letteraria molto pesante, qualcosa di quasi cartesiano che separa la lingua letteraria dall’altra. Spesso ci si accanisce su questo aspetto, arrivando a pensare che la scrittura sia praticamente l’unica disciplina umana che non si possa insegnare, salvo poi scoprire che a sostenerlo spesso sono anche quelli che leggono, amano, esaltano, scrittori che hanno frequentato scuole di scrittura come Wallace o Ellis (La scopa del sistema e Meno di zero, in pratica erano le loro tesi di laurea). Le scuole di scrittura insomma sono una sorta di catalizzatore, accelerano i tempi, ti permettono di acquisire strumenti critici che puoi utilizzare una volta che ti andrà di provare a scrivere a tua volta. Se dovessi cominciare a scolpire, non sarei mai in grado di fare il David, ma avrei bisogno di qualche nozione di base da cui partire, sarebbe presuntuoso pensare di non averne bisogno. Per fare il David o Meno di zero o La scopa del sistema non basta certo il mestiere, ci vuole quella cosa che chiamiamo talento, ma che in realtà io riconosco più nel termine sensibilità o sguardo. Quelli ce li hai o no. Non vorrei con questa risposta ottenere il suo contrario, ovvero fare un’apologia delle scuole di scrittura o dire che sono indispensabili. Non è affatto vero. Ma chiunque voglia mettersi a scrivere non pensi che basti farlo e basta, che Bolaño o Volponi non avessero un gran mestiere (erano semplicemente e seriamente autodidatti) pur non avendo frequentato scuole. Approcciarsi con un certo grado di coscienza alla scrittura (come a molte altre cose) è una questione che ha a che fare con il rispetto, con una specie di deontologia: ovvero la responsabilità nei confronti di chi dovrà spendere dei soldi e del tempo per leggere le tue cose.

Da una parte ci sono le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra ci sono i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. Sono manifestazioni, a mio parere, di una medesima ossessione: voler fare a tutti i costi lo scrittore. Se tutti gli “scrittori” italiani leggessero almeno un libro l’anno, le cifre sull’andamento del mercato editoriale schizzerebbero ai vertici della classifica. A parte la provocazione, che cosa ne pensi?
Penso che tu abbia assolutamente ragione, penso che se dovessi ripetere la domanda userei le tue stesse parole, le tue stesse provocazioni e i tuoi stessi principi di discussione. Non si può scrivere senza leggere, così come non si può imparare a parlare senza averlo sentito fare dai propri genitori, fratelli o sorelle. Si agisce per imitazione fin dall’infanzia. Chi scrive senza leggere fa un movimento innaturale che ha a che fare solo con la vanità.

In Italia si pubblicano più o meno 60.000 titoli l’anno. Un numero che fa impressione sempre in relazione alla percentuali di lettori. Secondo gli editori è questo l’unico modo per rimanere a galla. Secondo te, invece, in qualità di scrittore?
Per come è strutturato ora il mercato editoriale credo abbiano ragione. Bisognerebbe avere la possibilità (non credo sia solo una questione di coraggio) di smontare qualche passaggio e riprendere un’altra strada, un po’ come compromettere una faccia del cubo di Rubik per completarne un’altra. Se poi devo pensarla da lettore, più che da scrittore, credo che questo sistema non faccia altro che essere controproducente. Il lettore che entra in libreria è smarrito: troppa offerta, poche guide sicure perché sovrastate dal frastuono del marketing e troppi titoli magari fantastici che non riescono a ritagliarsi un piccolo spazio sui banconi. Per far ordine ci vorrebbe una catastrofe Malthusiana però.

Raffaele Riba alla finale di 8x8, 2011

Raffaele Riba alla finale di 8×8, 2011

Il tuo rapporto con la casa editrice 66thand2nd nasce con Leonardo Luccone di Oblique. Un legame professionale che risale a una delle prime edizioni del concorso letterario 8×8, la felice iniziativa per scovare giovani talenti. Come è andata esattamente?
Quando scoprii dell’esistenza dell’8×8 mandai un racconto. Non fu selezionato neanche di striscio. L’edizione successiva volevo riprovarci, ma una specie di resistenza dettata probabilmente dalla paura di non farcela di nuovo mi bloccò fino al penultimo giorno utile per inviare i racconti. Mi dissi che ero veramente un cretino. Così mi misi a scrivere un racconto che avevo in testa da un po’. Lo inviai e andò bene, vinsi la terza edizione. Da lì, grazie anche al senso della gestione e al dialogo con la pazienza che uno come Leonardo ha e con cui ti obbliga a fare i conti, nel tempo sono nate molte cose. Un racconto pubblicato su Watt, un contratto di rappresentanza e un lungo lavoro di confronto su quello che poi sarebbe diventato Un giorno per disfare. Da quel racconto alla pubblicazione del libro sono intercorsi circa cinque anni. E sono stato anche abbastanza fortunato. Senza Leonardo probabilmente sarebbe andata diversamente.

L’idea intorno alla quale hai costruito Un giorno per disfare ha avuto una lunga gestazione, era già presente nel racconto Eloquenza delle nature morte pubblicato su Watt. È come se non avessi voluto separarti dall’idea, preferendo espandere l’impalcatura originaria piuttosto che costruirne una nuova.
No, Watt è capitato in mezzo a un cantiere. Quando scrivo, scrivo quella cosa e basta, per ora è così almeno, non sono ancora abbastanza bravo per scrivere più cose contemporaneamente. Mi devo immergere completamente e non riesco ad avere la concentrazione necessaria per farlo in due o tre “posti” diversi. Per cui, quando mi è stato chiesto un racconto per Watt, non ci pensavo nemmeno a farmi scappare l’occasione e ho inviato le 35.000 battute che avevo già pronte. Avevano un inizio e una fine perché per questa storia ho lavorato così, come gonfiando un palloncino.

L’incipit di Un giorno per disfare è una sequenza fotografica, cinque scatti sul tentato suicidio di Matteo Danza. Fotografia e scrittura, due differenti forme di comunicazione, di espressione artistica. La fotografia sembra costringerti alla verità, con la scrittura invece si può anche evitarla. Qual è il tuo rapporto con l’immagine?
Non ho gran dimestichezza con la fotografia, anzi sono proprio disastroso quando si tratta di scattarne una. Eppure, grazie al cinema o direttamente grazie al fatto che la nostra vista è di gran lunga il senso più sviluppato, la porta principale, diciamo, io, come penso la maggior parte delle persone, quando devo concretizzare la fantasia passo da lì. Dalle immagini. Credo sia un processo naturale e necessario. Certo poi è anche molto divertente andare oltre.

un_giorno_per_disfare_coverSpendiamo qualche parola sul libro. A colpirmi, tra le altre cose, la costruzione per segmenti che si intersecano ma anche per linee parallele. Il nucleo è la vicenda di Matteo Danza, da cui ha inizio e fine il libro, nel mezzo hai costruito grappoli di altre storie, più o meno collegate al nucleo. Una struttura geometrica, poliedrica, che ti ha consentito di affrontare numerosi argomenti contemporaneamente. Era questa la tua intenzione?
Inizialmente no. Con un gesto, i quattro personaggi principali si passavano la storia l’un l’altro, come in una staffetta. Poi o il romanzo avrebbe avuto dimensioni bibliche oppure, visto che poi non è stato coì, sarebbe stata un’assurdità accompagnare il lettore con una voce per 40 pagine, poi con un’altra per altre 40 e così via. Non avevi il tempo di abituarti e immergerti che già dovevi cambiare casa. Allora ho pensato che modificare la struttura, giocare sull’entrelacement potesse essere una buona soluzione. Il prossimo romanzo sarà decisamente diverso.

Tutti i personaggi, ognuno per le sue ragioni, non sembrano incontrare la felicità, impegnati come sono a difendersi, a fuggire, oppure a sopportare il dolore che li circonda.  Non c’è più spazio per la felicità in questi tempi?
Si, è vero, ma sono personaggi alla disperata ricerca della felicità, sanno che potrebbe essere vicina, la cercano con tutta la forza che hanno, la desiderano. C’è spazio eccome per la felicità, solo che bisogna condividerlo con il tempo che ci si mette per arrivarci.

Nel libro si incontrano anche molti animali, di cui Matteo Danza spiega molto bene l’essenza: gli animali si limitano a lottare per la sopravvivenza, senza coscienza e senza scelta, perché il loro ciclo evolutivo si è fermato a quel livello. Quello dell’uomo, invece, si è inceppato, è finito in un vicolo cieco. Quindi non c’è più speranza?
No, la speranza c’è eccome. Sta tutta nel gesto di Matteo. Matteo prova in tutti i modi a lanciare un messaggio e alla fine ci riesce. Il messaggio dice pressappoco che conoscendo un po’ meglio i meccanismi che ci regolano, ma quelli veri, non presunti, avremmo in mano molti più strumenti per capirci, scusare certe cose di noi prima di porvi rimedio, di vivere meglio. L’etologia andrebbe insegnata nelle scuole. Aiuterebbe a capire tutte le altre materie.

Il mantra ricorrente di questi tempi, per contrastare la crisi, è fare rete, organizzarsi, unirsi. Com’è la situazione per i librai indipendenti di Torino?
Ci sono alcune realtà che lavorano molto bene. Non solo facendo rete, non credo. Sono riuscite a creare un rapporto di fiducia con le persone che le frequentano. Chi ci va si fida e loro, certo, non dormono sugli allori. Si danno da fare perché è la cosa che amano fare. Una gran fortuna per tutti.

Come deve essere la tua libreria ideale?
Una libreria intelligente che mi suggerisca dei libri facendomeli apparire come per magia sotto gli occhi. Comunque, riordinando la mia di recente ho fatto un esperimento. L’ho sistemata per aree geografiche (di provenienza dell’autore) dagli Stati Uniti al Giappone, creando una serpentina tra gli scaffali che collega tutto il mondo. Vengono fuori cose meravigliose, collegamenti mentali, una continua sfumatura culturale che non avevo mai pensato quando avevo i libri disposti per ordine alfabetico o per editore.

Che tipo di lettore sei? Ad esempio, leggi un libro alla volta, arrivi fino alla fine anche se non ti piace?
Una volta si, arrivavo alla fine, anche se non mi piaceva. Poi, come Jack Gambardella ne La grande bellezza, ho capito che non si può sprecare del tempo a fare cose che non ti va di fare: c’è poco tempo, bisogna sfruttarlo. Rimango restio ad abbandonare un libro, ma quando capisco che proprio non siamo in linea lo faccio. Solo questo è il discrimine, ma lo faccio. Di solito poi leggo tre o quattro libri contemporaneamente. Il tempo è sempre quello, nessuna nota di merito, questo modo però mi consente di sfruttare la gamma di sentimenti possibili e accordarli coi libri. Questa sera sono incazzato, leggo Bernhard, questa sera sono in pace col mondo leggo Vonnegut. Così.

Il libro che devi ancora leggere e quello che non avresti mai voluto leggere?
Un amore di Dino  Buzzati. I dispiaceri del vero poliziotto di Roberto Bolaño, facile immaginare il perché.

Puoi darci qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?
Certo, in estate ho lavorato su una voce per il Dizionario animalesco, di prossima uscita per Bompiani. Ora, invece sto scrivendo un libro per la casa editrice Loescher che finirà in una collana nata per adattare grandi classici, creando un link tra loro e i lettori giovani. S’intitolerà Abbi pure paura. Devo consegnare a gennaio. E poi riprenderò a scrivere il secondo progetto che avevo in testa fin dai tempi di Un giorno per disfare, una storia sulla fratellanza, in cui i due personaggi principali (saranno un po’ un Caino e un Abele, un Caifa e un Primo Levi) oscilleranno pericolosamente sul confine tra amore e odio (sempre assoluti e totali come può accadere solo tra fratelli). Un percorso condizionato da piccole porzioni di caos che li faranno passare da un lato all’altro della gamma sentimentale umana, fino a un epilogo che, per ora, tengo per me.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Cartongesso di Francesco Maino, Congo di David van Reybrouck e per l’ennesima rilettura La parte di Arcimboldi di Roberto Bolaño.

La recensione di Un giorno per disfare.