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Torna Flep!, il Festival delle Letterature Popolari

Dal 19 al 22 settembre torna Flep!, il Festival delle Letterature Popolari, organizzato e diretto dagli autori del collettivo TerraNullius. Qui i nostri post sulla prima edizione.
Il bus a due piani, simbolo della manifestazione partita lo scorso anno dal parco Meda (Tiburtino), in questa seconda edizione farà tappa all’Aranciera di San Sisto, una serra in stile Liberty a pochi metri dalle Terme di Caracalla.

Il Flep! vuole riavvicinare la società civile alla cultura alta, ai valori della nostra tradizione letteraria e artistica, convinti che l’arte in tutte le sue sfaccettature sia l’unico motore ‘sano’ della civiltà.
Anche in questa edizione il Flep! sarà infatti un contenitore di iniziative che spazierà dai reading alle esposizioni fino alla musica. I festeggiamenti per il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi saranno occasione per un’insolita presentazione–concerto con un quartetto d’archi dell’orchestra della Tuscia Opera Festival che accompagneranno la lettura di brani tratti da È così bella cosa il ridere. Lettere di un genio compreso di Giuseppe Verdi (L’Orma editore). Nella galleria d’arte del Festival, Ipercontemporanea, si potranno ammirare le foto di Tano D’Amico, le tavole di Mauro Biani e il lavoro della rivista WATT.

Il festival ospiterà importanti nomi della scena letteraria italiana: Wu Ming 1, Filippo Tuena, Davide Orecchio, Rosella Postorino, Davide Enia, Renzo Paris, Franco Limardi, Marco Petrella, Marco Philopat, Gianfranco Calligarich, Jakuta Alikavazovic e molti altri.

Segnaliamo in particolare: 

Venerdì 20 – ore 19:30 – incontro con Davide OrecchioCittà distrutte (Gaffi). Qui la nostra recensione e intervista.

Sabato 21 – ore 17:00 – incontro con Giovanni GrecoMalacrianza (Nutrimenti). Qui la nostra recensione.

Sabato 21 – ore 18:30 – incontro con Jakuta AlikavazovicLa bionda e il bunker (66thand2nd). Qui la nostra intervista a Isabella Ferretti, editrice di 66thand2nd.

Sabato 21 – ore 19:00 – incontro con Emanuele TononIl nemico (Isbn). Qui la nostra intervista.

Domenica 22 – ore 17:00 – incontro con Sandro BonvissutoDentro (Einaudi). Qui la nostra recensione.

Domenica 22 – ore 20:00 – Narrazioni per immagini #5 “Senza alternativa”: WATT MAGAZINE – mostra e incontro con i curatori Leonardo Luccone e Maurizio Ceccato. Qui i nostri approfondimenti su WATT.

Domenica 22 – ore 21:00 – incontro con Lorenzo Flabbi e Marco Federici Solari – è così bella cosa il ridere (L’Orma). Qui la nostra intervista agli editori.

Qui tutte le informazioni e il programma.

Le interviste dei Serpenti: Isabella Ferretti di 66thand2nd

a cura di Emanuela D’Alessio e Sabina Terziani

Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Isabella Ferretti. Nel 2009  ha fondato insieme a Tomaso Cenci 66thand2nd. La casa editrice risponde alla crisi con nuovi investimenti:  20-25 libri l’anno tra il 2014 e il 2015, ampliamento della struttura editoriale, nuovi progetti e nuove collane.«Di questi tempi non si può rimanere inerti e sperare di sopravvivere: o provi a crescere o sparisci, non c’è alternativa».

Isabella Ferretti

Che cosa vuol dire oggi essere un editore? In tempi di metamorfosi digitale per l’editoria, di self-publishing dilagante, di rivoluzione e crisi dell’intera filiera?
Per 66thand2nd il digitale è un’opportunità. Il mercato italiano ha una conformazione tale per cui l’editoria digitale, che non ha ancora un volume tale da cannibalizzare la vendita del cartaceo, non è la principale difficoltà per un piccolo editore. Lo è, invece, la struttura tradizionale del mercato librario, la cui conseguenza ultima è il fatto che un editore come 66thand2nd non riesce a raggiungere la visibilità minima in libreria, e su questo incide adesso anche la crisi economica. Quando abbiamo lanciato la casa editrice, tra l’ottobre e il novembre del 2009 (neanche quattro anni fa), potevamo contare sull’affezione dei librai indipendenti che costituivano più della metà del nostro fatturato. Questo tipo di librai è naturalmente più ricettivo verso un prodotto come il nostro, mentre le librerie di catena risentono della grande pressione di fare profitto. Ora assistiamo alla rarefazione delle librerie indipendenti: questo diradarsi ha provocato un contraccolpo non indifferente per molti editori, che soffrono le politiche delle grandi catene retail, soprattutto della centralizzazione degli acquisti. In passato, il direttore del singolo punto vendita poteva scegliere in autonomia cosa comprare e dunque appassionarsi a un editore e dargli continuità, aiutandolo così a fortificare il marchio presso il pubblico. Oggi le librerie di catena comprano pochissime copie di un titolo, il consumatore fa fatica a trovarlo, a ogni uscita bisogna riguadagnare la fiducia del buyer, le vendite stagnano e il risultato è che si stabilisce una sorta di record negativo per cui alcuni editori non riescono a superare un certo livello di vendita se non con enorme fatica e lavoro titanico. Al contrario, non ci accorgiamo di vendere in una giornata decine di copie di un ebook.

Quanto al self publishing, appare quasi come un fenomeno voyeurista. In Italia, rispetto ad altri paesi, esiste una forte aspirazione a diventare scrittori. La nostra casa editrice, pur essendo piccola, riceve un numero di manoscritti cospicuo, soprattutto per la collana Attese, dedicata allo sport, in un paese in cui gli aspiranti autori amano scrivere di calcio. Spesso riceviamo manoscritti che non hanno attinenza con la nostra linea editoriale e la quasi totalità è destinata a non essere pubblicata per via della scarsa qualità narrativa. Il self publishing rappresenta un canale valido per coloro che desiderano pubblicare a ogni costo. Il fatto che il mercato venga inondato da prodotti scadenti dovrebbe far emergere la qualità dei prodotti più validi e, di conseguenza, premiare il lavoro degli editori che puntano sulla qualità. Non temiamo che il self publishing porti al decadimento del gusto del lettore, che al contrario può essere provocato dall’imposizione di certi libri al top delle classifiche e dalla relativa risonanza mediatica. Aumentare l’offerta significa responsabilizzare i lettori chiedendogli di scegliere e costringere gli operatori culturali a migliorare l’offerta.

Per le case editrici può essere un modo per scoprire nuovi talenti?
Per noi non è così. La nostra dimensione è tale per cui ogni libro viene curato in ogni suo aspetto, anche insieme all’autore. Con la nuova collana, Vite inattese, 66thand2nd spinge lo scouting nell’àmbito della letteratura sportiva verso il genere anglosassone del memoir di pregio letterario, dedicato a grandi personaggi e a memorabili vicende di sport. Finora avevamo saggiato il terreno con due titoli: Hurricane di James S. Hirsch e Il mio nome è Jackie Robinson di Scott Simon, con ottimi esiti anche presso i lettori. Avevamo voglia di pubblicare delle storie che ci appartenessero, così abbiamo proposto ad alcuni autori italiani di scrivere per noi storie di sport che avevano dentro e che facevano parte allo stesso tempo dell’immaginario sportivo di 66th. A ottobre, per esempio, pubblicheremo un libro di Emanuele Tonon su Marco Simoncelli. La cosa bella è avere un poeta come Tonon che si cimenta nella scrittura sportiva, trasponendo in questo àmbito il lirismo e la sensibilità che gli sono propri.

Perché siete andati a New York e perché siete tornati?
Tomaso Cenci e io siamo andati a New York per lavoro, per ragioni completamente diverse dall’editoria e dal mondo editoriale, e lì abbiamo scoperto libri e autori che ci sembravano poco noti in Italia. Ci siamo avvicinati in particolare a due generi: la letteratura sportiva e quella di “melting pot”, che spesso viene etichettata in maniera semplicistica “letteratura migrante”, definizione nella quale non ci riconosciamo. Avviare un’azienda editoriale in America – lontano dal mercato di riferimento – era impensabile. Quando siamo tornati in Italia si sono avverate alcune condizioni favorevoli che hanno portato alla creazione di 66thand2nd e in questo nome abbiamo voluto trasmettere la gratitudine per i luoghi che ci hanno fornito l’idea e l’ispirazione per dare vita alla nostra casa editrice.

Quali difficoltà avete trovato in Italia? Quali vantaggi?
Bisogna distinguere tra la fase di start up che qualunque azienda agli inizi deve affrontare in qualunque settore e le sfide poste dal comparto editoriale nello specifico. Per quanto riguarda il primo punto, avviare una casa editrice è più semplice che avviare aziende in altri settori merceologici perché non si tratta di un business capital intensive, che richiede subito l’investimento di grosse somme di denaro. Paradossalmente, acquistare i diritti di un libro non costa molto di più di una borsa o un abito firmato. Così anche i costi di partecipazione a manifestazioni e fiere non costituiscono una barriera all’entrata. Considerata la nostra estrazione (entrambi i fondatori sono avvocati), abbiamo compilato una lista di cose da fare – la cosiddetta check-list – con l’aiuto di un consulente editoriale, lo studio Oblique di Leonardo Luccone, Giuliano Boraso e Elvira Grassi, e abbiamo cominciato a lavorarci. I problemi sorgono nella fase successiva, quella in cui bisogna guadagnare spazio in termini di riconoscibilità della casa editrice presso il pubblico e vendere. Fin dall’inizio abbiamo dedicato molta energia alla promozione e all’immagine e abbiamo ottenuto una riconoscibilità presso gli addetti ai lavori degna di case editrici più grandi e con una storia più lunga della nostra. Purtroppo però alla visibilità stampa non corrisponde un pari volume di vendite, sicuramente a causa della crisi che colpisce tutti ma anche per la descritta conformazione del mercato. Indubbiamente la verticalizzazione integrata dei ruoli di editore, distributore e retailer, presente in alcuni gruppi editoriali, ha un impatto distorsivo del mercato. Come già detto, alcuni libri rimangono bloccati con poche centinaia di copie di prenotato, che non consentono a noi come ad altri editori di ottenere la soglia di visibilità minima in libreria, e siamo perciò costretti a trovare soluzioni alternative. In questa situazione, anche avere una buona piattaforma e-commerce conta e aiuta a recuperare vendite. 66thand2nd ha creato un bookstore nell’àmbito di un completo restyling del sito, con la possibilità di comprare abbonamenti, libri e card da regalare, nel tentativo di accontentare i tanti lettori che ci scrivono perché non riescono a trovare i nostri volumi in libreria. Speriamo che la qualità del nostro prodotto, unitamente alla ricchezza di contenuti del sito e alla varietà delle offerte commerciali, crei una community 66thand2nd di lettori entusiasti e fedeli!

Quali sono i piani per il futuro?
Il nostro business plan prevede un aumento della produzione pari al 50% in due anni. Vorremmo, infatti, raggiungere tra il 2014 e il 2015 la soglia di “sostenibilità” che si assesta tra 20-25 uscite annue. Per realizzare questo obiettivo ci siamo dotati di una infrastruttura interna per consentire alla società di compiere il salto, struttura che include: una direzione editoriale che si aggiunge all’attività di direzione, generale e editoriale, degli editori, una direzione grafica, una nutrita redazione e un ufficio stampa, un responsabile commerciale. Quanto ai progetti, sono tanti. Abbiamo lanciato la nuova collana Vite inattese per attirare appassionati di sport diversi da quelli legati alla collana Attese – il cui denominatore comune è il romanzo letterario a sfondo sportivo (cfr. Il campione di David Storey o Il colosso d’argilla di Budd Schulberg) – grazie ad avvincenti storie di sport raccontate da firme italiane o straniere. La strada del coraggio, per esempio, libro tributo su Bartali uscito alla fine di maggio, scritto in maniera avvincente e rivolto a un pubblico esteso, si sofferma su un aspetto particolare della vita di Ginettaccio, ovvero il suo ruolo di salvatore degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, vicenda ancora poco nota ai più. È appena uscito anche Terribile splendore, di Marshall Jon Fisher, la storia del tennista tedesco Gottfried von Cramm, un giocatore che raggiunse l’apice della carriera all’epoca del nazismo, biondo, aristocratico e segretamente gay. Finché vinse una partita dopo l’altra poté assecondare le sue inclinazioni senza pericolo per la vita anche grazie ai continui viaggi all’estero, ma la sconfitta sul campo segnò la sua rovina. Siamo nei dintorni di Open di Agassi come qualità di scrittura ma con una cornice storica e narrativa molto più potente. Nel 2014 vedremo l’uscita di tre libri importanti per Vite inattese, dedicati a personaggi dello sport di caratura immensa: Marco Pantani, Ayrton Senna e Maradona.

Nel momento in cui si parla di decrescita nell’editoria, come si pone la vostra casa editrice?
La nostra risposta alla crisi è l’investimento. Abbiamo una formazione che ci spinge a fare impresa per creare lavoro e rilanciare nel nostro piccolo l’economia: incamerare maggiori risorse finalizzate all’aumento dell’output è il primo passo per il salto di qualità a livello aziendale. Già in questi primi mesi del 2013, l’investimento ha pagato in termini di incremento delle uscite, maggiore e più costante presenza sui social network, partecipazione a fiere ed eventi in varie località, gestione del bookstore 66thand2nd. In questo momento non tutti sono in grado di aumentare l’offerta, di investire. La maggior parte degli operatori o chiude o contrae la produzione. Il vantaggio di essere gli “ultimi” in ordine di tempo è quello di non essere ancora usurati e mantenere una situazione finanziaria sana. Effettuare un investimento in questa fase significa occupare spazi che vengono lasciati liberi, con la speranza di guadagnare posizioni ma anche di dare continuità alla filiera generale, in libreria o presso festival e manifestazioni. Di questi tempi non si può rimanere inerti e sperare di sopravvivere: o provi a crescere o sparisci, non c’è alternativa. Naturalmente, investire significa prendere dei rischi. Tra due o tre anni faremo un bilancio dei risultati della strategia aziendale e vedremo se avrà senso continuare o lasciar perdere. Roberto Calasso, in occasione dell’uscita del suo libro L’impronta dell’editore, ha avuto modo di ribadire che l’editoria è un business in cui è facilissimo perdere soldi. Poi c’è anche chi riesce ad arricchirsi, ma le nostre scelte editoriali tradiscono il fatto che abbiamo altri obiettivi. Non subire perdite e far girare capitale per continuare a fare cose belle e creare un indotto che faccia prosperare le professionalità che ruotano attorno alla casa editrice è per noi già un traguardo di per sé.

Quante persone lavorano in casa editrice?
Dal settembre 2012 abbiamo affidato la direzione editoriale a Leonardo Luccone dello Studio Oblique. Giuliano Boraso e Elvira Grassi dello stesso Studio Oblique sono, rispettivamente, gli editor della collana Attese (e Vite inattese) e Bazar. Il caporedattore è Maria Eleonora Cucurnia, con noi fin dalla fondazione della casa editrice, coadiuvata da Michele Martino, redattore senior, attivi anche nel ruolo di editor. Marco Scognamiglio ha occupato di recente la posizione di ufficio stampa e presidia il fronte insieme a Francesca Ciarcianelli, responsabile della comunicazione. 66thand2nd offre tradizionalmente stage retribuiti. Da giugno è con noi Francesca Lenti, coinvolta in tutta la filiera produttiva, con un focus speciale sui social network. Silvana Amato è da sempre il nostro Art Director, coadiuvata da Marta Biddau. Dal 2012 lavora con noi anche Sabrina Ranucci in qualità di responsabile commerciale.

Dopo la recente inchiesta sull’editoria invisibile e le ispezioni a sorpresa in alcuni gruppi editoriali il tema del precariato nell’editoria assume nuova urgenza. Forse tocchiamo un tasto dolente?
Non per noi. Abbiamo iniziato con l’aspirazione di fornire lavori stabili ai nostri collaboratori. La durevolezza della casa editrice è legata alle persone che con la loro permanenza creano una storia condivisa. Chi non ha incompatibilità di varia natura, è legato a 66thand2nd da contratto a tempo indeterminato. Gli stage sono sempre stati retribuiti.

Passiamo ai temi cari alla casa editrice. Perché siete partiti con il tema dello sport e del melting pot?
66thand2nd si è affacciata sul mercato nel 2009. All’epoca il progetto editoriale ruotava attorno a  due collane, Attese e Bazar. Entrambi gli editori amano lo sport: giocato, vissuto, guardato, e negli Stati Uniti abbiamo letto libri di grande letteratura sportiva. Tomaso Cenci è anche un grande conoscitore delle statistiche sportive e delle alterne vicende di vita dei grandi campioni. Siamo appassionati di baseball, sport particolarissimo e poco conosciuto in Italia, che ci è sembrato il giusto punto di partenza per la collana: il baseball è lo sport di attesa per eccellenza. Bazar nasce invece da un gusto letterario, formato nel periodo di vita all’estero, influenzato da autori come Zadie Smith con il suo Denti bianchi. Vivere in prima persona l’esperienza di doversi integrare in un paese straniero, tra costumi e tradizioni diversi dal proprio luogo di origine, avvicina a questo tipo di letteratura e più in generale apre la mente alle implicazioni del melting pot culturale. Anche la collana Bookclub deriva da esperienze compiute fuori dall’Italia. Negli Stati Uniti e in Inghilterra è comunissimo far parte di gruppi di lettura, composti di amici che s’incontrano a cadenza regolare per discutere di libri e scambiare idee e opinioni. Bookclub, lanciata nel 2011, è il primo caso in cui un editore fa parte del gruppo di lettori e suggerisce cosa leggere con l’intento di trasmettere ai lettori un’idea, un gusto, un mondo intero. Sullo sfondo, il desiderio di restituire centralità alla lettura come strumento di formazione del pensiero: su internet si trova tanto, si trova tutto ma le informazioni sono scollegate, frammentarie, è il trionfo dell’informazione sull’opinione, e manca la fiducia nella capacità dell’utente di elaborare un pensiero indipendente. Bookclub è uno sprone per il lettore a ricostruire pensieri e opinioni attraverso la lettura e il godimento di una narrativa di ampio respiro. In questa collana abbiamo pubblicato Il dolce sollievo della scomparsa di Sarah Braunstein, sulla sparizione di una bambina dodicenne nella provincia americana, e La mancanza di gusto (qui la nostra recensione), il romanzo d’esordio di Caroline Lunoir, dove è condensata una efficace critica ai legami familiari e alle ipocrisie delle generazioni che ci hanno preceduto, quella del dopoguerra e quella che ha fatto il Sessantotto e si è imborghesita. Pubblicheremo presto Bambina mia di Tupelo Hassman, un libro che si inserisce nella scia letteraria da noi inaugurata con la pubblicazione "La fine" Salvatore Scibonadi Salvatore Scibona (qui la nostra recensione di La fine), che presta attenzione ai personaggi ordinari, che vivono ai margini della società. Una caratteristica saliente della collana Bookclub è la grafica che si rinnova a ogni uscita. È questo un tratto diffuso nell’editoria anglosassone mentre in Italia domina l’idea di collana in cui ciascun libro si uniforma a un progetto grafico con parametri fissi. Oltre a provare a fare breccia nel concetto di uniformità grafica, volevamo dare origine a un prodotto unico, che parlasse a ogni lettore a partire dall’involucro esterno: un prodotto prezioso, curato – anche se per noi costoso – che aspirasse a diventare un prodotto da collezione. E forse proprio questa cura e questa unicità potranno essere un valido antidoto alle edizioni digitali, per il valore aggiunto che un’edizione unica fornisce al lettore. Nelle nostre peregrinazioni attorno al mondo meraviglioso della collana Bazar, abbiamo meditato la decisione di entrare nel genere polar e l’abbiamo chiamata B-Polar, dove la B sta per Bazar ma allude anche alla bipolarità. Gli autori africani da noi prediletti sono maestri del genere polar – l’incrocio tra poliziesco e noir – ma largamente sottovalutati rispetto ai giallisti scandinavi. Si tratta, naturalmente, di una sottovalutazione che trascende il genere e colpisce tutti gli intellettuali africani. Quanti in Italia hanno letto, ad esempio, un premio Nobel come Wole Soyinka? Eppure tutti conoscono Herta Müller (o forse anche questa è un’illusione). In una fase storica come la nostra è davvero un controsenso continuare ancora a parlare di letteratura africana, trattandola implicitamente come una letteratura di rango inferiore. Penso ad alcuni dei nostri autori, per esempio Alain Mabanckou, scrittore congolese, trapiantato in Francia all’età di ventidue anni, che da un decennio insegna letteratura francofona alla UCLA. Mabanckou ha vinto tutti i premi più prestigiosi del mondo letterario di lingua francese, ma in Italia non riesce a ottenere il risalto che merita. Per tornare al polar, il libro di Florent Couao-Zotti aveva tutte le caratteristiche per dare l’avvio a una collana come B-Polar: una storia di droga, sesso e ammazzamenti in una Cotonou (capitale del Benin) inedita e sorprendente. Gli azzardi linguistici e la trasfigurazione grottesca dei personaggi fa pensare a fumetti come Sin City di Frank Miller, da cui è stato tratto l’omonimo film. A questo volume è seguito La bionda e il bunker di Jakuta Alikavazovic, scrittrice serbo-montenegrina di penna francese, un romanzo misterioso in cui l’amore è anche amore per l’arte. Seguirà in ottobre il romanzo di Alain Mabanckou Zitto e muori, in cui l’autore riprende le atmosfere delle banlieu già esplorate in Black Bazar e la vena noir di African Psycho.

Quali sono le linee guida del progetto grafico?
66thand2nd ha un’immagine coordinata molto distintiva: ruota intorno al marchio della casa editrice che ricorda la segnaletica americana, con la tonalità del verde 66th e dell’antracite. Nel corso dell’elaborazione del progetto grafico delle prime due collane, Attese e Bazar, emerse chiaramente la predilezione editoriale per l’uso dell’illustrazione rispetto alla fotografia. Di conseguenza, abbiamo scelto, per la collana Bazar, i disegni di Julia Binfield, molto brava nel tratteggio a china, nel comporre immagini con brandelli di carta, nel ricreare piccoli oggetti. Poi l’Art Director Silvana Amato traduce i disegni nel linguaggio appropriato per il libro. Per la collana Attese il contesto è meno mobile, c’è un riquadro in cui vengono disposti i disegni dello studio spagnolo Alexis Rom, eseguiti da Claude Marzotto. Alexis Rom ha un immaginario immediatamente riconducibile alla Spagna degli anni Cinquanta e Sessanta, mai prima di allora messo al servizio di un progetto editoriale. Anche in questo caso l’intervento di Silvana Amato è decisivo per la migliore riuscita dell’organizzazione di copertina. Bookclub è una collana rispetto alla quale la grafica ha un ruolo preponderante e l’opera dell’Art Director è molto penetrante. Nella collana ci sono copertine di segno grafico pure (come Inutili fuochi di Raffaella Ferré – qui la nostra recensione, qui l’intervista alla scrittrice – e La mancanza di gusto di Caroline Lunoir) accanto a copertine fotografiche (Il dolce sollievo della scomparsa) e illustrate. Un bell’esempio di compenetrazione tra grafica e interni è il libro di Riccardo Romani Le cose brutte non esistono, che nasce da una storia vera. Il protagonista del libro è affetto da acufene. Quando chiesi a Silvana Amato di realizzarne la copertina, si ricordò di avere da poco ritrovato un amico che non vedeva da molto tempo, anche lui affetto da questo raro disturbo, che paragonò all’esperienza di avere perennemente una conchiglia nella testa. La descrizione corrispondeva perfettamente a un’illustrazione ricevuta in dono tempo prima da Fabian Negrin – un volto ritratto in trasparenza con in testa una conchiglia turchese… Approvata! In B-Polar, la natura noir della collana si rivela graficamente nell’uso del colore in copertina anche all’interno, al posto del bianco, cifra di 66thand2nd. Per Vite inattese, abbiamo il privilegio di lavorare con Guido Scarabottolo, che realizzerà per noi la galleria di ritratti dei grandi sportivi che abiteranno la collana: Gino Bartali, Gottfried Von Cramm, Marco Simoncelli, Marco Pantani, Ayrton Senna, Diego Armando Maradona. È tramite Guido Scarabottolo che abbiamo conosciuto la nostra Silvana Amato e a lui va un grazie speciale per averci seguito dall’inizio e per la generosità, comune agli altri illustratori che lavorano con noi (anche non su base continuativa), di rendere la loro arte e il loro lavoro accessibili a piccoli editori come noi. Questo è un modo concreto per aiutare la piccola editoria.

Le fiere del libro: sono un utile strumento per conoscere e farsi conoscere, un’onerosa perdita di tempo o semplicemente appuntamenti a cui non si può mancare?
Per noi sono decisamente uno strumento utile e anche in questo caso 66thand2nd si muove secondo una logica di investimento. Al Salone Internazionale di Torino, già dall’anno scorso dividiamo un quadrilatero insieme ad altri tre editori (Nutrimenti, Keller e La Nuova Frontiera), formula che ci ha consentito di ampliare spazio e visibilità dividendo i costi con altri colleghi. Il dibattito sull’opportunità di frequentare il Salone di Torino è sempre molto acceso. Per noi rappresenta una cassa di risonanza di grande impatto, l’impegno finanziario è senz’altro molto oneroso, ma ne vale la pena. Recentemente, abbiamo costituito Libri in circolo insieme a Voland, Nutrimenti, Nottetempo, Emons, Quodlibet, Lantana. È un’associazione portatrice di progetti culturali e che a piccoli passi spinge per la promozione della lettura: in primo luogo favorendo la partecipazione a fiere e ad altre manifestazioni nei piccoli centri, magari affidando la gestione degli stand a librai.

All’ultimo Salone del libro di Torino si è parlato dei blog letterari e della loro (poca) influenza sulla vendita dei libri. Che cosa ne pensa?
Di certo se esce una recensione su un blog non è detto che aiuti le vendite, ma purtroppo oggi è difficile stabilire una correlazione matematica tra uscita stampa – anche sul grosso quotidiano – e vendite. Secondo noi è molto importante il dialogo con i blog letterari, che sono un termometro. I recensori dei blog scrivono perché hanno veramente letto il libro e hanno voluto recensirlo. Per noi è importante essere scelti, ci piace quindi spendere tempo e attenzione con i blog letterari e i loro curatori.

 

Le interviste dei Serpenti – Anthony Cartwright

di Sabina Terziani

Dopo la recensione di Heartland, pubblicato da 66thand2nd, concludiamo con l’intervista all’autore Anthony Cartwright.

Nato a Dudley nel 1973, si è laureato in Letteratura inglese e americana, ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolamento carni, in diversi pub, al mercato di Old Spitalfields e per la metropolitana di Londra, poi è diventato insegnante. Ha esordito con The Afterglow, tra i vincitori del premio Betty Trask 2004. Nell’agosto 2012 è uscito il suo ultimo romanzo, How I Killed Margaret Thatcher. Cartwright si dichiara onorato di appartenere alla grande famiglia del realismo sociale inglese – in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle –, ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.

Da The Afterglow a How I killed Margaret Thatcher, dove sta andando la tua scrittura?
È importante sottolineare che tutti e tre i romanzi sono ambientati nella stessa zona, perciò c’è una decisa impronta regionale. The Afterglow parla della perdita di un figlio, un bambino che viene investito da un camion. Ogni capitolo del libro racconta la storia dal punto di vista di un membro della famiglia e delle persone che in un modo o nell’altro le sono collegate. Rispetto agli altri due romanzi lo sfondo è utilizzato in modo diverso. Il bambino muore negli anni Ottanta e la storia è ambientata nei Novanta. Come negli altri romanzi c’è un guardare indietro e un rendersi conto di come certe condizioni socioeconomiche abbiano un impatto sulla vita degli individui. Naturalmente questo tema è presente anche in Heartland. In termini di evoluzione, Heartland si apre un po’ di più a temi sociali in senso ampio, al mondo, al conflitto tra culture. Il mio ultimo romanzo, How I killed Margaret Thatcher, è stilisticamente ancora diverso, nell’uso della prima persona, di una sola voce. Credo di aver finito per scriverlo così perché è venuto dopo Heartland, ma penso che la mia scrittura voglia tornare alla polifonia, alla molteplicità di punti di vista che ho praticato finora. Riguardo ai temi, poi, a soggetti come il paesaggio, l’impatto delle questioni sociali sulla vita degli individui e delle famiglie, e lo sport, ecco, mi piacerebbe scrivere di nuovo di calcio, anzi sono sicuro che il calcio tornerà nella mia scrittura. È da qualche mese che sto provando qualcosa di completamente diverso, una storia per bambini, ambientata nel passato, con uno stile abbastanza tradizionale, nonostante vi emergano alcuni dei temi sociali che mi stanno a cuore. Lungo tutta la loro carriera gli scrittori tornano sempre a quella manciata di metafore e idee che li ispirano.

Nel libro Heartland aleggia lo spettro di un’età dell’oro ormai passata per tutti.
Sì, è un’idea molto presente nella Black Country. L’economia industriale che sosteneva la regione è crollata all’improvviso all’inizio degli anni Ottanta. Nella gente c’è ancora un fortissimo senso di perdita di quell’identità. È accaduto ovunque nell’occidente industrializzato. Io sono cresciuto in un posto così, e ho voluto catturare una parte almeno di quello stato d’animo in cui si percepisce che la realtà è stata privata di senso, di struttura, di comunità. Una volta, sulle cartine, i giacimenti di carbone della Black Country, nel sud dello Staffordshire, erano indicati con un tratto nero, ma oggi per la maggior parte delle persone l’appellativo fa riferimento alla polvere nera, al fumo delle ciminiere che annerisce gli edifici anche se ormai non è più così.

 Jim, il consigliere laburista, ha paura di vincere le elezioni e ha solo voglia di andarsene in pensione in Spagna.
Sì, Jim è il più “esemplare” dei miei personaggi. Vive in un’area in cui tradizionalmente i laburisti avevano una solida base elettorale che all’epoca del racconto iniziava a sgretolarsi. In Heatland siamo in pieno New Labour, con la rivoluzione di Tony Blair, e Jim si sente da un lato messo in panchina dal suo stesso partito, dall’altro sempre più lontano da ciò che succede per strada. Non ha più energie, idee. Per quanto riguarda gli avversari, il BNP ovvero la destra estrema, nella politica locale inglese ci sono sempre stati fenomeni simili, basti pensare alla metà degli anni Settanta, quando era il National Front a dare voce a quelle posizioni. Ho l’impressione che si tratti di un fenomeno ciclico, generazionale. Le ultime elezioni locali hanno visto il trionfo di un altro partito, lo UKIP, l’ennesima riproposizione della destra, stavolta circondata da un alone di rispettabilità. La percezione diffusa è che abbia una base middle class, e infatti è stato descritto come “il BNP in giacca e cravatta”. Oggi insomma la destra cavalca un sentimento antieuropeo e anti immigrazione, mentre nel 2002 faceva un discorso prevalentemente anti musulmano.

Cinderheath e Heartland. Cosa significano per te queste due parole?
Cinderheath non esiste nella realtà, nonostante sia composta di frammenti di toponimi reali. Nel nome stesso di Black Country, la regione in cui è ambientata la storia, c’è il contrasto tra industrializzazione estrema e ruralità, una dualità onnipresente che volevo catturare. È una regione in cui l’industria è arrivata molto presto ma non ha creato grandi città. Sono nati tanti piccoli centri urbani sparsi a macchia di leopardo, cuciti insieme a mo’ di patchwork, un po’ come le voci delle mie storie. Qui la geografia diventa qualcosa di interiore, non è più una metafora. In fondo, la geografia è destino. Per quanto riguarda il termine heartland, vorrei sottolineare che in inglese ha connotazioni decisamente politiche. Le Midlands, la regione dove sono nato e cresciuto, sono definite “heart of England” nel senso di centro industriale della nazione. Certo, in questa parola c’è anche il rimando al luogo del cuore, ai legami affettivi con un posto, ma non è la sola sfumatura.

Qui la recensione di Heartland.

Heartland – Anthony Cartwright

Recensione di Sabina Terziani

In Heartland comincia tutto dai nomi. Nel nome di Cinderheath, la cittadina delle Midlands che è teatro degli eventi, coesistono schiacciati uno contro l’altro cinder, sia carbone che nutre i dark satanic mills, sia scoria metallica, sia, infine, in fondo al ciclo di produzione e recupero dello scarto, ciò che diventa cinder block, i blocchi di calcestruzzo di scorie di cui sono fatti gli edifici industriali, e heath, la brughiera, con il suo alternarsi di conche e crinali ricoperti di erica a perdita d’occhio.
Un paesaggio inglese trasformato negli ultimi secoli dalla presenza delle fabbriche nelle conche, e delle case su per i fianchi e in cima ai rilievi, in cui oggi i confini tra zone produttive, residenziali e di consumo sono sbiaditi perché non c’è lavoro. Questo paesaggio è la heartland di Rob, il protagonista del romanzo (ma definirlo protagonista è attribuirgli un ruolo dai contorni netti, mentre lui è sì sguardo unificante eppure è insieme sfuggente, sfumato, spettatore), che alla fine di tutto, delle partite, delle elezioni, del libro, per smaltire la bevuta fa una passeggiata e arriva in cima a «Cinderheath Lane, prima della discesa verso la conca. Da lì si vedevano i lotti in tutta la loro estensione e oltre, le vecchie fabbriche e i negozi e la chiesa e la moschea, altri lotti di case popolari molto simili a loro e canali e autostrade e campi e edifici diroccati e le ultime ciminiere rimaste in piedi».
Heartland è il luogo del cuore, ma non è più conoscibile o forse non lo è mai stato. È un blocco percettivo non frammentato da virgole, e ci sta dentro tutto, riprendendo la citazione: «Aveva ripreso a pensare. Ai suoi parenti giù dal parrucchiere che forse finivano le paste, ridevano del rigore di Beckham e parlavano preoccupati di Michael. Pensava a Zubair nel suo studio, chissà se era il caso di chiamarlo subito oppure no. Pensava a Jasmine, a Glenn, a Lee, ai ragazzi di scuola, al fantasma di Adnan, a Yusuf Khan, a tutti, con la consapevolezza, dolorosa e consolante a un tempo, che tutte le cose che se ne vanno possono ritornare, prima o poi».
È il 7 giugno 2002. L’Inghilterra ha appena giocato contro l’Argentina, il temuto derby contro i musulmani è acqua passata, lo zio Jim ha vinto le elezioni, il mistero di Adnan è stato risolto, eppure è difficile parlare di vittorie o di sconfitte. Come tutti, Rob è felice per lo 0 a 0 dell’Inghilterra, ma ha bevuto troppo per goderne appieno; certo, è contento perché qualche settimana prima la sua squadra ha vinto contro il Cinderheath Muslim Community Fc, ma a bordo campo a festeggiare c’erano quei ceffi del BNP che gli fanno schifo e paura; i laburisti hanno vinto ancora una volta le elezioni locali, ma contenendo a malapena l’avanzata della destra xenofoba; finalmente Rob riceve notizie di Adnan, l’amico scomparso, ma è un mistero risolto a metà, perché dopotutto nessuno sa dov’è finito (lo sa il lettore ma non i personaggi a cui tocca vivere nel dubbio).
Il romanzo cresce accostando e incrociando le tessere di linee temporali diverse, alternando i punti di vista e le voci, ognuna portatrice della sua minuscola porzione di realtà, di consapevolezza. È Rob, giovane promessa del calcio, invecchiato, svuotato senza aver mai vissuto la pienezza del proprio talento, il prisma che assorbe e riflette le tante vite che compongono Heartland. C’è la vita di suo padre Tom, anche lui ex calciatore; ci sono le vicende dei ragazzini analfabeti di ritorno che Rob cerca faticosamente di motivare allo sforzo di leggere; la storia di Jasmine, la collega insegnante per cui prova attrazione, ma lei ama disperatamente un altro, proprio Adnan, l’amico perduto; le difficoltà di Stacey, la madre di Andre, ragazzino sfregiato, e della piccola Gemma, autistica; c’è Glenn, il fratello di Stacey, xenofobo e compagno di squadra di Rob;  c’è lo zio Jim, consigliere laburista che scopre nel figlio Michael abissi di quotidiana cattiveria.
Come tutti, Michael si difende attaccando, ma senza assumersi la responsabilità delle proprie azioni. In un confronto tra genitori, insegnanti e ragazzini, Rob chiede ragione dell’esistenza della banda dei Woodies a uno dei teppisti, e il ragazzo, Mohammed, risponde: «Ci proteggiamo a vicenda. Quell’altro, Andre, come si chiama, non voleva diventare dei nostri. Comunque adesso lo è. Se non vuoi entrare nella banda devi pagare e lui non voleva, perciò gli abbiamo preso la bici. Poi qualcuno ha tirato fuori il coltello. Ci siamo spaventati.» Il preside non capisce e chiede: «Ma perché vi serve una banda, Mohammed? Da chi dovete difendervi?». Questa è una delle domande centrali del libro, a cui risponde il British National Party, prodotto della dissoluzione dei legami sociali che funge da coagulante del terrore del diverso, la squadra trasversale che gioca imponendo le proprie regole agli avversari.
Spina dorsale di Heartland è il contrasto tra la forma rigorosa della narrazione, scandita dai tempi e dalle regole del calcio, e la frammentarietà esplosa delle storie che si raccontano con un andirivieni incessante tra vari momenti del passato. La palla passa da un giocatore, da un punto di vista all’altro, e a volte, soprattutto all’inizio, il lettore fatica a seguirne la traiettoria. Ma è proprio nell’incertezza, nel dubbio del lettore – che riflette l’annaspare nel buio dei protagonisti – che risiede la potenza creativa del romanzo. Cartwright, infatti, non genera soltanto una storia, ma forgia un lettore che si pone domande scomode e a cui non si devono fornire risposte pacificanti. Come sostiene Walter Siti in Il realismo è l’impossibile, solo se il dubbio nasce nel lettore come reazione all’aver ottenuto dalla narrazione «qualcosa in più o in meno di quel che si aspetta, l’autore può infondergli quel senso di incertezza che la realtà produce».

Nota sull’autore
Anthony Cartwright è nato a Dudley nel 1973. Si è laureato in Letteratura inglese e americana alla University of East Anglia. Ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolamento carni, in diversi pub, al mercato di Old Spitalfields e per la metropolitana di Londra, poi è diventato insegnante. The Afterglow, suo romanzo d’esordio, è stato tra i vincitori del premio Betty Trask 2004. Nell’agosto 2012 è uscito il suo ultimo romanzo, How I Killed Margaret Thatcher. Elogiato a più riprese da autori come David Peace e Jonathan Coe, Cartwright si dichiara onorato di appartenere alla grande famiglia del realismo sociale inglese – in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle –, ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo. Definisce Heartland il suo romanzo «più manifestamente politico» e confessa che scrivendolo ha imparato che «tutti i romanzi, per quanto realistici, sono sempre e comunque opere di fantasia».

Per approfondire:
Leggi la recensione di Michele Lupo su
flanerì
Leggi la recensione di Marco Imarisio sul Corriere della Sera

Anthony Cartwright, Heartland
Traduzione di Daniele Petruccioli

66thand2nd, 2013
pp. 289, 17€

La mancanza di gusto – Caroline Lunoir

Recensione di Alessia Caputo

«I nostri vent’anni, i nostri trent’anni non sono carne da macello. La nostra sopravvivenza e la perpetuazione del sistema noi non la decidiamo imbracciando il fucile. La voracità della Storia mi ha risparmiata. È vero, sono tra quelli che il proprio secolo lo contemplano da seduti. Dal bordo di una piscina.»
Breve ma intenso romanzo d’esordio della giovane Caroline Lunoir, La mancanza di gusto ha per protagonista Mathilde, un’avvocatessa, alterego non voluto della scrittrice che ogni estate trascorre la settimana di Ferragosto nel castello di famiglia. Lì si raccontano le storie familiari di tre generazioni, con un occhio alle abitudini, ai rapporti personali e al lavoro. Quello della Lunoir e di Mathilde è un punto di vista singolare che passa in rassegna lo scorrere dell’esistenza al castello. Tutto è un rito che si ripete ogni anno allo stesso modo e che passivamente viene assorbito da tutti da sempre. Ma quest’anno c’è una novità: una piscina elegante e splendente che si staglia nel verde come punto di incontro e di discussione in una calda estate francese, altrimenti solo noiosa.
«Il sole è timido, ma è l’ora preziosa in cui la casa dorme ancora. Solo mia nonna lascia fumare il tè nella cucina e incanta i corridoi con l’odore del pane imburrato. D’inverno, quando mi alzo all’alba, i campi sono intirizziti di bruma. La piscina mi aspetta, dopo sarà troppo mondana.»
È lì a bordo vasca che si confrontano i trent’anni e i vent’anni e molto altro dei protagonisti che vivono per quell’estate e molto probabilmente solo per quella trascorsa all’ombra della piscina, la vera protagonista, soprattutto quando il capofamiglia decide di consentire l’accesso anche alla servitù. 
La Lunoir racconta di tutte le esistenze, in modo così dettagliato e semplice al tempo stesso da spiazzare. È diretta ma ammiccante, raffinata ma superficiale, con un lessico che non lascia nulla al caso. La Lunoir sa quello che vuole dire e lo dice.
«Questa grande famiglia è dominata dalle donne. In numero come in volume sonoro. I figli maschi sono spesso considerati imprevedibili. Il marito, mansueto, incarna di buon grado l’autorità gestionale. È portafoglio, genitore di idee politiche e fantoccio che approva l’amministrazione del focolare. La moglie è donna, madre, padrona di casa, custode dei legami familiari, orecchio attento, gioia delle mura domestiche e fantoccio per quanto riguarda gli affari esterni.»
Questo piccolo libro sembra un affresco moderno in stile Jane Austen. Passeggiate in campagna, caldo torrido, nonni ingessati, prozie matrone e nipoti un po’ troppo disinibite, elementi apparentemente banali che sconvolgono la routine, come la piscina o il costume della Rosana a bordo vasca, i bambini che corrono sul prato o si tuffano rumorosamente, i profumi, i cancelli arrugginiti. Passato e presente si rincorrono in questi diciassette brevissimi capitoli e nei racconti dei protagonisti, lasciando in bocca l’amaro e nella testa la disincantata idea di un mancato rimpianto.

Nota sull’autrice
Caroline Lunoir vive e lavora a Parigi come avvocato penalista. La mancanza di gusto è il suo primo romanzo. Il libro è stato finalista al premio letterario Fondation Prince Pierre de Monaco 2012, e selezionato al Laval 2011 come romanzo d’esordio.

Per approfondire
Leggi la recensione su Internazionale
Leggi l’intervista a Caroline Lunoir su Elle
Leggi l’intervista/recensione su Rai Letteratura

La mancanza di gusto – Caroline Lunoir
traduzione di Maurizia Balmelli e Elena Malanga
66thand2nd, 2012
107 pp., 12 euro

Le interviste di Via dei Serpenti: Raffaella R. Ferré

Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Raffaella R. Ferré, autrice di Inutili fuochi (66thand2nd). Qui la nostra recensione.

Intervista di Alessia Caputo

«Rrf, se mi devo spiegare allora è tutto inutile», così c’è scritto in alto sul tuo blog. Noi vogliamo farti spiegare un po’ di cose. La seconda R sta per? Cosa in realtà non vorresti spiegare?
La R può risultare esotica, in realtà sta per Rosaria, un omaggio alla Madonna di Pompei. La storia del mio nome è lunga e articolata, e include liti familiari. Basti sapere che durante il primo giorno di vita non sono stata né Raffaella né Rosaria, bensì Maria Ayslia. Le spiegazioni dei fatti che mi riguardano sono tutte lunghe, per questo alle volte mi annoiano: diciamo che avere due nomi al posto di uno è già indicativo.

La tua biografia è divertente e intelligente. Non c’è scritto come hai cominciato a scrivere e perché. Ce ne vuoi parlare?
Ho cominciato a scrivere per un giornale nel 2003, la prima pubblicazione è, invece, del 2007, un racconto dal titolo Miss Centouno incluso nella raccolta Toilet della 80144 edizioni. In realtà ho sempre scritto, e da quel che ricordo la mia scrittura ha sempre incuriosito gli altri. Che poi mi chiedevano spiegazioni, per l’appunto.

Tre romanzi, tanti racconti, collaborazioni importanti. Com’è la tua vita di scrittrice oggi?
Ho tempi rapidi nella scrittura, ma il pensiero che c’è dietro nasce prima e anche quando non sono impegnata con un nuovo romanzo o racconto, in realtà ci sto pensando. Scrivere è una pratica che deve incastrarsi con la vita, che deve divertire, ci provo nonostante le difficoltà, tra lavori precari, amici, e tutto il resto.

Inutili Fuochi ha i colori dell’estate e dei villaggi vacanze sia dentro sia fuori (nella copertina soprattutto). Una scelta particolare e innovativa per un editore come 66thand2nd. Come mai?
La 66thand2nd è stata meravigliosa e per Inutili Fuochi ha creato l’ambientazione giusta. Il progetto grafico è di Silvana Amato ma l’intera redazione ha lavorato al libro come oggetto integro con molta cura: hanno portato in superficie il tono della storia.

C’è  la crisi dell’editoria, il passaggio dal libro cartaceo all’ebook e le innumerevoli polemiche sul dilagante fenomeno del self-publishing. Tu che ne pensi?
Penso che lettura e scrittura non siano meccanismi regolabili dall’economia. Si possono influenzare, certo, ma io che sono forse romantica, penso che scrivere con l’idea fissa della pubblicazione, non faccia bene. E che leggere solo quello che è proposto in maniera aggressiva, ancora meno. Entrambi sono processi di ricerca, scelta e cura. Vanno affrontati con lentezza.

I personaggi del tuo romanzo sembrano tante pedine di un gioco senza regole. Si muovono, vivono, sembrano affollare uno spazio minuscolo. Alcuni colpiscono di più, ti ci affezioni, altri meno. Come  sono nati e perché li hai incastrati come se si passassero la storia tra loro?
Luisa, Andrea, Marta e Ricardo, Lia coi suoi genitori, Carlos il bagnino, i bambini senza nome che cercano lucertole tra le canne, e infine il lettore stesso che diventa un personaggio con Tu, e resta sdraiato sul letto mentre gli altri prendono a schiaffi con lo stile libero il mare rattrappito della costa, sono nati assieme. Non c’è una trama ben definita a legarli, se non la presenza nello stesso luogo: la storia sono loro e sono i loro stati d’animo, le loro gravidanze, i loro mal di testa, i balli latino-americani, le fantasie che hanno e che nella controra si sciolgono e vanno a fondersi con la realtà a portare avanti il racconto.

Cosa leggerà questa estate Raffaella R. Ferré? E “come” leggerà? Cartaceo o ebook?
Vorrei un bel libro, prima di tutto. Mi lascio portare dal momento, ma mi è sempre difficile trovare un romanzo che mi piaccia davvero, più semplice che sia un saggio a risolvere questi momenti di stallo. In ogni caso, quando succede non importa che il libro sia fatto di carta o che per leggerlo io abbia bisogno di un dispositivo elettronico: l’importante, a quel punto, è che io l’abbia trovato.