di Emanuela D’Alessio
«La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western».
È da questa frase, più o meno a metà dello stupefacente esordio del torinese Gabriele Di Fronzo, classe 1984, che vorrei iniziare per evidenziare lo sfuggente riferimento alla madre di Francesco Colloneve, protagonista e voce narrante de Il grande animale.
Mi è sembrata un’assenza eclatante, forse perché siamo abituati a ritenere la figura materna il perno sul quale, nostro malgrado, tutti ci avvitiamo, o forse perché è prevalso l’inconscio risentimento femminile per una storia dove la figura materna è solo effimera comparsa in una scena tutta al maschile, perché i protagonisti sono un figlio con l’anima cicatrizzata e un padre che l’improvvisa malattia ha reso fragile e vulnerabile, trasformandolo da iracondo carnefice a vittima spaurita.
Ma in questa latitanza dell’universo femminile (perché Colloneve vive isolato e rinchiuso e non mostra interesse alcuno per relazioni di qualsiasi tipo) ho trovato un’altra storia, sotterranea e inespressa, da cui ricavare un’ulteriore chiave di lettura.
È così che si procede leggendo Il grande animale, per deduzioni, in un presente pietrificato dall’annullamento delle emozioni ma disseminato di frammenti che, ricomposti, restituiscono le rappresentazione di un passato tutt’altro che indolore e con il quale si è costretti comunque a fare i conti.
Si tratta proprio di frammenti, perché è questa la cifra stilistica di Gabriele Di Fronzo, concentrato con estrema cura a sottrarre, svuotare, eliminare l’inessenziale, come lo è Colloneve con i suoi animali. Quasi a suggerirci che lo scrittore, come l’imbalsamatore, hanno in fondo lo stesso obiettivo: fissare nel tempo ciò che altrimenti scomparirebbe per sempre.
Francesco Colloneve, che di mestiere fa il tassidermista, si prodiga nel descrivere minuziosamente le fasi del suo lavoro, unica ragione di vita, indugiando nella rappresentazione asettica e chirurgica di corpi sventrati e svuotati, di pelli raschiate, di cavità lubrificate, per realizzare il sogno o l’illusione di fermare per l’eternità il trapasso della vita. Allo stesso modo descrive la manciata di giorni trascorsi ad accudire il padre malato, assecondando le intemperanze di una mente che sta svanendo, fino al disbrigo delle pratiche che ogni morte richiede.
Tutto avviene con un’anestesia emotiva sconcertante, ma dalla quale trapelano i segni indelebili di un dolore che si è insinuato inesorabile, provocato dall’assenza della madre e da un padre autoritario e anaffettivo, insensato nelle infinite crudeltà con le quali ha cresciuto il figlio.
«La collera con cui si scatenava su di me, la sua vastità, il tono roco che assumeva quando mi veniva addosso, il fracasso delle sue mani prima ancora di riceverle in faccia, la sua rabbia per accelerare le cose, perché andassi alla velocità che lui voleva corretta, nel legarmi le scarpe come nel crescere, mi rimproverava perché ero lento quando lui mi avrebbe desiderato rapido, esigeva che fossi lesto a sparecchiare e a capire come ci si dovesse comportare a scuola o a casa quando c’era un ospite».
Nefandezze subite per una vita intera che Colloneve non ha voluto o potuto rimuovere, «la mia testa tristemente piena di certi momenti, che io ricordi così dettagliatamente non è normale, avrei dovuto lasciarmi indietro queste cose, avrebbero dovuto essere già scomparse e altre avrebbero dovuto prendere il loro posto, invece come per lui anche per me c’era da sarchiarle, uno avvalendosi dell’aiuto delle mani dell’altro». Crudeltà che, al contrario, rievoca con spietata precisione, nel tentativo di recuperare, di fronte a un uomo «così ammaccato, rovistato dai malanni» un po’ di compassione e pietà, per diminuirne le colpe e convincersi che quelle forme di possesso non fossero poi granché.
Non è scontato il risultato, perché Colloneve non sembra scegliere tra odio e pietà, ma Gabriele Di Fronzo ha comunque trovato, con la sua voce inconsueta e priva di retorica, un’efficace e originale chiave di interpretazione dell’universale tema che accompagna l’umana esistenza: l’inesauribile lotta che un figlio ingaggia con il proprio padre, per liberarsi dal giogo e poi imparare a vivere l’irreversibilità della perdita.
Francesco Colloneve, mi piace pensare, porta a termine la sua lotta senza vendetta e comunque vittorioso. Ma la sua è una vittoria senza enfasi e soddisfazione, restano solo una grande stanchezza e un sollievo: «niente più spoglie che possano stormire e chiamare il mio nome quando sarà la notte».
La nostra intervista a Gabriele Di Fronzo.
Nota sull’autore
Gabriele Di Fronzo è nato a Torino nel 1984. Collabora con L’Indice dei Libri del Mese. Ha pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus.
Il grande animale
Gabriele Di Fronzo
nottetempo, 2016
pp. 161, € 12,00