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Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano. La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

RACCONTI ITALIANI #2 – L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

L’autobiografia del personaggio che poi sarei io di Elvis Malaj è uscito su Il Libraio (19 ottobre 2017). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Elvis Malaj*

Sono nato nel marzo del Novanta, un anno di grandi cambiamenti per l’Albania. Alle famiglie delle zone rurali vennero concessi una mucca e qualche pecora, il che significava che non avrei patito la fame toccata a mio fratello più grande. Mentre trascorrevo un’infanzia spensierata scarrozzando per la campagna in uno stato brado, l’Albania attraversava una fase confusa dove non era chiaro il confine tra legale e illegale. Bajze, dove sono nato, si trova in una posizione strategica, e così in poco tempo è diventata una cittadina fiorente grazie al contrabbando con il Montenegro. Gli albanesi stavano assaporando la democrazia, ma poi si è rivelata non essere la democrazia che credevano e sono rimasti delusi.

Bajze, stazione

Quando siamo arrivati in Italia avevo quindici anni. La lingua la sapevo abbastanza e degli italiani sapevo che erano molto amichevoli. Tutto questo grazie alla tv. Già il primo giorno, mentre eravamo in treno verso Alessandria, un signore siciliano seduto di fianco si è mostrato molto gentile quando gli ho detto che ero albanese. Mi ha messo una mano sul ginocchio e poi l’ha fatta scivolare verso l’interno della coscia. Io l’ho lasciato fare, non sapevo ancora dell’esistenza dei gay. Un’altra cosa che sapevo degli italiani, cioè che sapevamo tutti, è che erano ricchi e che buttavano la roba ancora buona. Lì nel condominio mi vedevano spesso insieme a mio fratello fare su e giù per le scale con divani scassati e tv rotte.

Mia madre l’italiano non lo sapeva per niente. Le prime parole che ha imparato sono state «katro figli scola, no lavore». Era riuscita a scovare tutte le sedi della Caritas e associazioni simili di Alessandria. Una volta ho dovuto accompagnarla per fare da traduttore. Mentre mia madre mi dettava le parole da dire alla tipa, io mi guardavo intorno attonito; c’erano barboni, gente malmessa sul serio, una donna che parlava da sola, un uomo che fissava il vuoto in uno stato catatonico mentre un altro sembrava in crisi d’astinenza.
«Ushqim» mi diceva mia madre, ma ero talmente imbarazzato che non sapevo più l’italiano. Alla fine è riuscita a farsi capire da sola e la tipa ha detto che non distribuivano cibo da portare via, ma potevamo mangiare lì se volevamo.
Mia madre stava per chiederci: «Ragazzi, volete sedervi e mangiare?», ma si è girata verso i barboni e ha capito che non era il caso. Non sono mai stato così incazzato con mia madre come in quel momento.

In quel periodo stavo attraversando una fase critica, cominciata l’ultimo anno che ho passato in Albania, e con il trasferimento in Italia si è acuita. Mi sono isolato ancora di più, e ho preso a parlare sempre meno. La cosa è diventata preoccupante quando, ormai già al secondo semestre inoltrato, m’è scappato un commento nei confronti dell’insegnante d’inglese e lei c’è rimasta secca: «Ma allora tu parli?!». Ci ero rimasto male.

Io comunque facevo di tutto per sembrare un ragazzo normale, e ci tenevo ad esserlo. L’estate seguente l’ho passata chiuso in casa, le mie nevrosi, le mie fobie, i miei complessi, le mie paranoie eccetera hanno avuto un’impennata. La cosa mi ha procurato un bel po’ di seccature con i miei. Non sapevo come spiegargli quell’isolamento, né la mia paura del mondo. Poi è ricominciata la scuola e ho dovuto riprendere a uscire.

Il primo ritorno in Albania è stato tre anni dopo averla lasciata. Ero diventato quello che ritorna, e in Albania le persone che ritornano assurgono a una categoria speciale che gode di grande stima. Quello che ritorna tornava a raccontare la sua vita bellissima nel paese in cui era emigrato e infondeva agli altri la speranza di toccare con mano un giorno quelle meraviglie. La parte più importante di quei racconti, ovviamente, riguardava il sesso. Sono riuscito a eludere la questione per un po’ finché, davanti alla stazione, davanti ai binari, Nard Shala mi ha chiesto senza mezzi termini: «A ke qi gja?». A quel punto tutti si sono zittiti per ascoltare. Mi ha preso un leggero panico ma poi, dissimulando il peso della verginità, ho fatto il mio dovere: ho raccontato di quante me ne ero scopate, come me l’ero scopate, dove le avevo scopate, quante in una volta; ho raccontato di come le ragazze italiane facevano bene i pompini, e gli ho detto che andavano pazze per il cazzo albanese.
Serio in faccia, Nard Shala si è avvicinato ed è rimasto a guardarmi fisso. Io ero lì pronto a confessare, a chiedere perdono, solo che lui continuava a non dire niente. A un certo punto mi ha dato una bella pacca sulla spalla, orgoglioso di me. Dopo quella volta in Albania ci sono ritornato solo in un paio di occasioni, e solo perché la mia presenza era obbligatoria.

Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Belluno, rinnovando la mia condizione di nuovo, estraneo, diverso. Nel 2009 mi sono diplomato come perito meccanico e mi sono iscritto alla facoltà di fisica a Milano; dopo due mesi mi sono trasferito a filosofia, e dopo altri due mesi ho lasciato definitivamente gli studi. Ho girovagato per i centri sociali insieme a un mio amico d’infanzia che avevo ritrovato a Milano, facendo grandiosi progetti mentre eravamo strafatti e continuando a sperperare i soldi dei miei, che non sapevano che avevo mollato gli studi.

Un giorno mi sono svegliato alle tre del mattino su una panchina di un parco mai visto prima, e così ho deciso di ritornare a Belluno. Il mio rientro è coinciso con un momento di difficoltà economiche dei miei, e il mio ritorno è stato interpretato come un gesto per non gravare sulla famiglia, con conseguenti sensi di colpa dei miei. Quando mi chiedevano se il motivo era proprio quello io rispondevo di no, ma ciò non faceva altro che aumentare la nobiltà del mio gesto. E così ho cominciato a lavorare, collezionando le più disparate occupazioni: muratore, addetto alle pulizie industriali, operaio manutentore, lavapiatti, magazziniere, lavacessi, archivista, guardia notturna eccetera. Ma sto cercando di smettere. Nel frattempo mi sono trasferito a Padova e sono riuscito a convincere quelli di Oblique Studio che sono uno scrittore, e loro mi hanno aiutato a convincere quelli di Racconti Edizioni che ho scritto un libro.

*Elvis Malaj è nato a Malësi e Madhe (Albania) nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia. Oggi vive e lavora a Padova. Ha partecipato al concorso 8X8 nel 2013 con il racconto Mrika; il racconto L’incidente è stato selezionato per la Rassegna stampa di Oblique (giugno 2015); il racconto Il televisore è stato pubblicato sul numero #4 di effePeriodico di altre narratività. Ha appena terminato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, come si legge sul sito di Oblique Studio che lo rappresenta. Nel frattempo è uscita la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia per Racconti edizioni.

Leggi l’intervista all’autore

RACCONTI ITALIANI #1 – Intervista a Ade Zeno

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

di Emanuela D’Alessio

L’autore del racconto La città dei bambini fantasma si chiama Ade Zeno. Torino è la sua città, «ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò». Scrive forse per egoismo, noia, «al limite per disperazione», ma il suo lavoro è cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, «un lavoro molto delicato» che ti costringe ad assorbire il dolore altrui.
Ha fondato la rivista letteraria Atti Impuri e con il collettivo Sparajurij ha fatto «cose pazzesche per quindici anni».
Ha sempre amato Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (da cui trae ispirazione La città dei bambini fantasma). Tra i fondamentali ci sono Kafka e Borges, di quest’ultimo deve leggere almeno una frase ogni giorno. Però il suo prediletto è Roberto Bolaño e il libro più grande, assicura, lo ha scritto Miguel de Cervantes.

Ade Zeno

Sei nato a Torino, hai pubblicato due romanzi e numerosi racconti, hai fondato la rivista letteraria Atti impuri, lavori come cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino. Cominciamo da qui, da questo lavoro inusuale, ma anche un lavoro come un altro. Come si diventa cerimoniere di un cimitero? Per concorso, per chiamata diretta, per caso o per rincorrere un desiderio?
È andata più o meno così: dopo anni di lavoro all’Università come borsista e assegnista di ricerca, un bel giorno sono finiti i fondi e tanti saluti a una carriera accademica peraltro mai desiderata. A due passi dal baratro salta fuori questo caro amico, da tempo impiegato alla Società per la Cremazione di Torino, che deve trasferirsi all’estero per motivi personali e ha bisogno di trovare un sostituto. Il mio curriculum è piuttosto in linea con il profilo richiesto perché durante l’iter universitario, fra le mille altre cose, mi sono occupato di tanatologia. Il colloquio con il direttore del tempio va bene (fra l’altro scopro che è un lettore accanito, quindi passiamo il tempo a parlare di libri), inizio il percorso di formazione e vengo assunto. Insomma, così su due piedi risponderei che si diventa cerimonieri per chiamata diretta.

Quali sono le mansioni di un “cerimoniere” e qual è il rapporto, nel caso ci fosse, con la tua scrittura?
Per rispondere in modo esaustivo dovrei impiegare almeno un paio d’ore. Molto schematicamente: un cerimoniere deve occuparsi di organizzare e presiedere quotidianamente una certa quantità di funerali laici. Al Tempio Crematorio di Torino succede in media fra le dieci e le venti volte al giorno. I luttuanti arrivano lì, nella Sala del Commiato, per accompagnare il defunto prima della cremazione, e chiedono di poter tributare l’ultimo saluto. Ci si raccoglie intorno al feretro e si ha la libertà di scegliere come commemorarlo. Alcuni scelgono il silenzio, altri la musica, altri ancora letture (poesie, salmi, lettere e così via). Il mio compito è quello di fare in modo che questo momento assuma un senso e soprattutto una forma, nella maggior parte dei casi scegliendo io stesso i testi più adeguati alla situazione. È un lavoro molto delicato che ti costringe a un confronto costante con l’altrui dolore. Un dolore che assorbi e amministri anche se non è il tuo. Un paio di giorni dopo il funerale presiedo la funzione di consegna dell’urna cineraria, altro momento delicatissimo in cui i parenti del morto devono confrontarsi con la trasformazione del corpo: un trauma terribile. Raccontato così sembra complesso. In realtà lo è molto di più. Per rispondere alla seconda domanda, non so dire quale rapporto ci sia tra il mio mestiere e la scrittura. Sicuramente l’ambiente in cui lavoro somiglia molto a uno scrigno pieno di storie. Basta fare una passeggiata fra loculi e cellari per rendersi conto dell’enorme quantità di narrazioni che si nascondono dietro quelle migliaia di lapidi. Ogni foto, ogni iscrizione racconta qualcosa. Nell’ultimo anno ho lavorato su un romanzo ambientato proprio lì. Non so cosa ne farò, qualcuno lo sta leggendo, magari uscirà, magari no.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Si scrive per egoismo, per noia. Al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio.

Soffermiamoci sul tuo racconto La città dei bambini fantasma, una storia colma di metafore, una fiaba dalle tinte fosche, un’ambientazione dai confini remoti e indistinti. Ci vogliono tredici settimane per raggiungere la Città nera seguendo le istruzioni di un mercante di Tunisi, di contrabbandieri algerini, di una tenutaria di Aleppo, di un predone berbero. Un luogo dove si perde l’anima e si assumono «le sembianze di fanciulli gracili e biondi», dove si rabbrividisce. Il risultato è stupefacente, per un racconto da diecimila battute. Ci aiuti a decrittare un testo così essenziale e denso al tempo stesso?
L’idea di fondo è partita dalla storia di Saint-Exupéry, o meglio dalla fine della sua storia, quell’ultimo volo da cui non è mai più tornato.  Ho sempre amato Il piccolo principe: un libro lunare, terribile, profondamente inquieto, che parla di solitudine e termina con un suicidio. Quel bambino biondo apparso dal nulla continua a turbarmi, certe pagine mi commuovono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima lettura. Diciamo che con la storia dei bambini fantasma ho provato a giocare con quest’atmosfera sospesa infilandoci dentro alcune fra le mie tante ossessioni. La perdita della memoria, per esempio, o il desiderio di oblio, giusto per spolverare le più evidenti. Non ho impiegato molto a tirar giù la prima stesura. Con Leonardo Luccone ho poi lavorato di fino eliminando i fronzoli linguistici, i miei tanti, insopportabili, tic letterarieggianti. Lui mi dice taglia qui, taglia lì, togli tutta questa inutile merda. È un editor severissimo, non gli sfugge mezza virgola. Se la versione definitiva del racconto mi piace abbastanza, è solo merito suo.

Hai all’attivo due romanzi e numerosi racconti. Hai pubblicato con due piccoli editori e dopo svariati rifiuti. Che cosa dovrebbe cambiare, se c’è qualcosa da cambiare, nel viaggio di un manoscritto verso la libreria passando per un editore? E mi riferisco volutamente soltanto alla categoria “libro cartaceo”.
Devo essere onesto, non so proprio rispondere a questa domanda. Io scrivo, leggo, ogni tanto mi imbatto nelle infinite discussioni sui destini del libro e sulle difficoltà dell’editoria, ma lo faccio da turista, vale a dire in modo vergognosamente superficiale. In rete spopolano analisti molto più bravi di me a individuare criticità e possibili soluzioni. È vero, i miei manoscritti hanno collezionato – e quasi certamente continueranno a collezionare – quantità esorbitanti di rifiuti. All’inizio ci restavo male, ora mi limito a sorridere con malinconia. Però gli editori fanno il loro mestiere, io mi occupo di altro. Certo, a libro uscito ti piacerebbe che lo leggessero in tanti, e non è assolutamente il mio caso. Ho il sospetto di aver venduto pochissimo. Ma No Reply e Il Maestrale non avevano uffici di stampa potenti, e poi si sa che nel giro di pochi mesi un libro sparisce dagli scaffali, ammesso che riesca ad arrivarci. La quantità di novità è enorme, emergere dal ginepraio un terno all’otto. Senza contare il fatto che magari hai scritto un libro poco interessante, e allora è soltanto colpa tua.

Hai fondato insieme al collettivo Sparajurij la rivista letteraria Atti impuri, dal 2010 anche in versione cartacea. Qual è il suo stato di salute attualmente e delle riviste letterarie in generale?
Quella di Atti impuri è stata un’esperienza bella, addirittura esaltante. Ai tempi la situazione delle riviste cartacee era un po’ in stallo, c’erano molti blog, molti siti, ma mi sembrava importante tornare a proporre qualcosa di più libresco. Quando ero ragazzetto ne esistevano a bizzeffe, ricordo con particolare affetto Addictions, faceva cose bellissime. La dirigeva Leonardo Pelo, un pazzo entusiasta, che fra l’altro è stato il mio primo editore, praticamente l’unico a credere in quello che scrivevo. Tornando a noi, alla base c’era l’idea di creare un luogo fisico in cui convergessero le voci più impure della narrativa e della poesia contemporanea, esordienti e non. Una sorta di mappatura dello stato di salute della forma racconto e della ricerca linguistica in generale. Abbiamo pubblicato inediti di autori diversissimi fra loro, anche da un punto di vista generazionale, ma tutti di massimo livello. Fra gli stranieri William Cliff, Herberto Helder, Durs Grünbein, John Giorno. Il mio grande orgoglio è stato quello di pubblicare la prima traduzione assoluta di alcune poesie dell’Estridentismo messicano. Mi sembra che negli ultimi anni siano spuntate fuori molte altre riviste degne di nota, anche se tra mille difficoltà. Per quanto riguarda la nostra, però, credo che il suo ciclo sia ormai concluso. Non abbiamo più tempo né energie da dedicare a un progetto tanto ambizioso. Ma è fisiologico, niente di male. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un buon lavoro, ne sono convinto.

Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie: palestre di scrittura, trampolini di lancio per esordienti, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Direi le prime tre. I disillusi possono rifugiarsi un po’ ovunque, non mi preoccuperei troppo per loro.

La forma racconto in Italia non sembra godere di particolare successo.  Eppure nemmeno un anno fa è nata a Roma una casa editrice (Racconti edizioni) che ha puntato tutto sui racconti e sta andando molto bene. I due giovani editori sono un’eccezione inspiegabile o hanno semplicemente smascherato un pregiudizio infondato?
Sono felicissimo del fatto che un progetto del genere sia in circolazione e stia avendo fortuna. Credo si tratti comunque di un successo circoscritto, non molto competitivo rispetto ai cosiddetti grandi numeri. Quindi no, non penso che abbiano smascherato un pregiudizio infondato, almeno non ancora; però stanno lavorando nella giusta direzione, spero con tutto il cuore che riescano ad andare avanti. Da lettore sono particolarmente grato alla forma breve o brevissima. Comprimere mondi nel minor spazio possibile, giocarsi il tutto per tutto in un solo gesto potenzialmente perfetto: è un azzardo che mi affascina anche come scrittore. Pensa a Charms, al Manganelli di Centuria, a Örkény, a Wilcock, oppure a quel libriccino di Thomas Bernhard, perfido e delizioso, EreignisseLa lotteria di Shirley Jackson è un vero gioiello, bisognerebbe impararlo a memoria. Potrei continuare a lungo. Lʼanno scorso ho letto una raccolta incredibile, Il paradiso degli animali, opera prima di David James Poissant. Lo hanno pubblicato i ragazzi di NN, bravissimi anche loro a scovare diamanti.

Torino appare sempre di più fucina letteraria, con l’indiscusso Salone del Libro che ha retto alla sfida milanese, con il Premio Calvino e la scuola Holden da dove escono di tanto in tanto voci interessanti, con scrittori (torinesi di nascita o adozione) che arrivano all’esordio in libreria senza sfigurare. Qua è la tua visione, particolare e globale, della città?
Torino è la mia città, ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò. Mi piace parlarne male, ma non riesco a immaginare un luogo geografico in cui preferirei risiedere. Forse quando sarò abbastanza vecchio e arreso mi trasferirò in una località di mare molto appartata, possibilmente abitata da indigeni che non parlino la mia lingua. Ma ci penserò più avanti. La mia formazione umana e letteraria si è consolidata qui, i legami più sinceri sono tutti torinesi. Non sono un tipo mondano, né frequento salotti, che in genere mi mettono molto a disagio. Insomma tendo a starmene per i fatti miei. Il Salone del Libro è un evento importante, sono felice che esista, ma ci passo sempre solo di sfuggita, giusto per ritrovare qualche vecchio amico. Nel complesso tutta quella confusione mi agita terribilmente. Stesso discorso per quanto riguarda il Premio Calvino e la Holden: è un bene che esistano, ma a me non cambiano nulla. Però è vero che negli ultimi anni questa città si è configurata sempre più come luogo in fermento: incontri, serate, laboratori, slam, ce n’è per tutti i gusti. Se fossi meno orso me ne starei sempre in giro. Però posso dirti che, per quanto riguarda il mio percorso da scribacchino, l’esperienza più importante è stata collettiva. Parlo dell’incontro con il gruppo Sparajurij: un manipolo di ragazzetti boriosi e disincantati con cui ho condiviso oltre quindici anni di cose pazzesche germinate negli angusti corridoi dell’Università per poi dilagare ovunque. Auguro a chiunque la fortuna di poter sguazzare in un contesto del genere.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. La Torino libraria è altrettanto vitale come quella letteraria? E qual è la tua libreria ideale?
Direi di sì. Torino è popolata di piccole, spesso meravigliose, librerie indipendenti. Luoghi abitati da esseri eroici e paradossali con cui puoi passare ore a parlare di libri senza annoiarti mai. La mia libreria ideale è esattamente così: un posto tranquillo, illuminato bene, portato avanti da pazzi furiosi e appassionati. Arrivi lì con un titolo da ordinare e ne esci con tre di cui ignoravi l’esistenza.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Non sono un grafomane, sono piuttosto pigro, quindi scrivere è per me motivo di grande frustrazione. Insomma, preferisco aver scritto. In compenso credo di essere un buon lettore. Credo che un elenco ragionato del mio percorso personale risulterebbe noioso, ma posso mettere sul piatto alcune presenze per me fondamentali.  Kafka, senza dubbio, ogni sua parola è un piccolo miracolo. E poi Borges, di cui devo leggere almeno una frase al giorno. Non importa quale, basta aprire un volume a caso, trovo sempre qualcosa che mi fa stare bene. L’altra sera mi sono imbattuto in quella prosa fantasmagorica, Una oración, che termina così: “Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo”. Da sette o otto anni sono molto amico anche di Roberto Bolaño. Il libro più grande, però, lo ha scritto Cervantes. Invidio chiunque si trovi nella felice condizione di non averlo ancora letto e di avere la possibilità di farlo.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un autore neozelandese che non avevo mai sentito nominare, Maurice Shadbolt. Il libro si intitola Le acque della luna, edito da Feltrinelli nel 1962 e fuori catalogo da tempo. Con una rispolverata alla traduzione andrebbe assolutamente ristampato, sono quasi tutti racconti notevoli. Adesso invece sto leggendo Antoine Volodine, Terminus Radioso, dopo aver amato moltissimo Angeli minori e Scrittori. Anche a lui voglio abbastanza bene. Ma meno che a Bolaño. Ragionando in termini affettivi, Roberto è in assoluto il mio prediletto.

Leggi il racconto La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI #1 – La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

La città dei bambini fantasma di Ade Zeno, è comparso su Retabloid (luglio 2017), la rassegna stampa realizzata da Oblique studio.  Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Ade Zeno *

Poi, a una certa ora, nella Città nera fa buio e cielo e terra tornano a fondersi in uno. All’alba, invece, il labirinto cambia aspetto, la luce si riprende tutto e bagna gli angoli, il viottolo, le mura di terra bianca. Allora anche il nome muta forma: poche sillabe sussurrate dagli autisti delle corriere dirette a nord o dalle guardie di frontiera mentre spulciano i passaporti scuotendo la testa. Al viandante testardo verrà esposto con garbo un dettagliato elenco di svantaggi: tragitto troppo lungo, vie tortuose, predoni appostati ovunque. Per non parlare della destinazione in sé: un garbuglio di rovine abitato da malaria e bestie affamate. Niente alberghi, non un ospedale, acqua potabile a singhiozzi, batteri ignoti pronti a farsi beffe di anticorpi impreparati.
Nessuno sarà disposto a indicarvi la strada per la Città nera. A meno che non abbiate con voi parecchio denaro. Oppure un amico pazzo.
Delle due, per quanto mi riguarda, la seconda.

Si chiamava Antoine, e la sua prima vita ebbe termine lì. Aveva soldi, follia, e una voce ostinata che gli ronzava nella testa. Parti, vai, ripeteva di continuo. Vola fino alla città in cui ogni cosa di perde. Non tornare più.
Era un pilota provetto, nessuno conosceva quei cieli meglio di lui.
Già dal giorno dopo, alcuni cronisti avrebbero parlato di incidente, altri di un abbattimento nemico che lo aveva fatto sparire nell’oceano. Il suo corpo, invece, stava affondando altrove, qui: nella città in cui per incanto si torna a essere ciò che siamo stati e ancora saremo. Girandole, spettri. Disorientati bambini fantasma.
Non eravamo amici, io e Antoine. A unirci, semmai, un legame più simile a una corrispondenza formale, uno scambio fra estranei talmente affini da riconoscersi al primo sguardo. Nobile lui, senza radici io, ci eravamo incrociati nel cuore di un’Europa martoriata dalla stessa guerra di cui non avrebbe visto la fine. Era brutto, pingue, elegante. Aveva una moglie e decine di amanti. Poi, di notte, mentre il resto del mondo sognava o moriva in trincea, riempiva i suoi quaderni di mappe e appunti. Fino al giorno in cui si decide a parlarne con qualcuno, prima che tutto svanisse nel nulla.
Non è esatto dire che me ne parlò: la confidenza – chiamiamola così – fu in realtà affidata a tre cartoline postali, scritte a distanza di alcune settimane l’una dall’altra. Mi raggiunsero per miracolo solo due anni dopo la fine della guerra.
Non sarò così irresponsabile da rivelarne il contenuto: altro, dopo di me, potrebbero commettere l’errore di spingersi fino alla Città nera, e questo non deve accadere. Basti riferire che i tre messaggi contenevano, nell’ordine: una confessione; una dichiarazione di intenti; una disperata richiesta d’aiuto. La prima mi disorientò. La seconda mi fece sorridere. La terza, invece, mi impose di preparare i bagagli e partire.

***

Nella Città fantasma l’aria ha il sapore della polvere e al calare del sole niente sembra avere suono e nulla pare vero, neanche il vento caldo che smalta gli occhi, nemmeno le gole dei gatti randagi che spostano le tegole lassù, fra le migliaia di tetti appoggiati su case senza padrone. Le notti sono un lungo intervallo in cui i respiri tremano e si fa largo il silenzio. Percorrere i marciapiedi che costeggiano le strade centrali – un budello di vie strette e fetide – è l’unico modo per non essere visti. Al vostro fianco, nascoste fra le ombre, si sposteranno anche le sagome esitanti dei superstiti, quell’esercito disarmato di bambini allo sbando.

La confessione di Antoine riguardava un delitto (tanto grave quanto non verificabile) di cui si riteneva responsabile a tal punto da meritare una condanna esemplare. Nella seconda cartolina, più articolata della precedente ma meno lucida, riportava notizie di un luogo in cui sarebbe stato possibile espiare peccati ignominiosi, una città governata da poteri segreti in grado di purificare gli uomini. Il terzo messaggio, infine, proveniva da lì, e lo sa solo il diavolo come sia riuscito a spedirlo. A quanto scriveva, era arrivato pochi giorni prima, ma già si trovava a due passi dal baratro. Insieme alla cartolina, nella busta senza affrancatura che mi tremava fra le mai, trovai la mappa con le indicazioni, oltre alla supplica di correre a prenderlo. Avrebbe potuto rivolgersi a un padre, a un fratello, alla più invaghita fra le amanti. Invece aveva scelto me, un intimo sconosciuto con il cuore spento.
Tornato dal fronte avevo trovato il vuoto: padre e madre sepolti sotto i bombardamenti, due fratelli dispersi nelle Ardenne, e una promessa sposa scappata con un ricco mercante russo. Questo Antoine non poteva saperlo, eppure qualcosa doveva averlo convinto che tristezza e oblio fossero scritti da sempre nel mio destino. Solo a te posso chiederlo, intimava un corsivo sbavato. Soltanto tu puoi riuscirci.

Il viaggio durò tredici settimane. Da un mercante di Tunisi venni a sapere che la Città si trovava duecento chilometri più a ovest rispetto alle mie carte. Alcuni contrabbandieri algerini giurarono sui propri figli che la direzione giusta era quella opposta. La tenutaria del più raffinato bordello di Aleppo pretese una cifra pari a nove notti d’amore per convincermi che avevo sbagliato strada un’altra volta. Eppure anche setacciando fra tante invenzioni qualche verità trova sempre il modo di affiorare. Seppi abbastanza presto che nella Città nera sarei morto subito se non mi fossi tatuato una stella a sette punte sul lato destro del collo. E che quello stesso marchio mi avrebbe fatto uccidere se mai lo avessi mostrato una volta uscito. La voce lenta e melodiosa di un predone berbero mi assicurò che in tutto il mondo non esistono guardie più feroci di quelle assoldate per vegliare sui bambini fantasma. Quando domandai a quell’uomo meno reticente di altri chi mai fossero i generali che comandavano le sentinelle della Città, la sua bocca si storpiò in un ghigno felino.
I maghi, confessò poi dopo lunghe trattative. Esseri immondi che si nutrono di disperazione succhiando da poveri folli disposti a barattare l’anima in cambio di illusioni. Solo se sei disperato verrai accolto nella Città, aveva continuato il berbero. Solitario e triste come un cane mangiato dalla sete.
Si chiamava Quabli, aveva ottant’anni. Mi fece giurare che se mai fossi tornato vivo dal viaggio non lo avrei cercato, né avrei detto a nessuno del nostro incontro. È a lui che devo le ultime, più importanti, indicazioni.
Prima di arrivare – mi disse – avrei fatto meglio a procurarmi un niquab di lino grezzo, l’unico modo per tentare di confondermi agli altri. Nessuno nella Città indossa abiti diversi da questo, se si escludono le guardie, coperte da tonache rosso rubino che si gonfiano sottovento come enormi gonne. Un taglio nel tessuto all’altezza del collo avrebbe esibito la stella a sette punte, il mio unico lasciapassare. Fu sempre il vecchio a indicarmi il nome di un tatuatore esperto: il risultato della visita in quella bottega di blatte e aghi roventi brilla ancora oggi sulla mia pelle scottata. Il consiglio più prezioso fu quello di varcare le mura al tramonto, quando le guardie si rilassano e i bambini fantasma cominciano a riversarsi nelle strade. Non tollerano la luce, il minimo abbaglio li porta a fuggire, a rintanarsi nei loro giacigli. Soltanto la magia delle ombre sembra ammorbidirli in una parvenza di conforto. Mentre gli aguzzini sorvegliano dall’alto coi fucili pronti a tirare, i bambini fantasma si aggirano ovunque senza meta. I più giovani – quelli arrivati da poco, anime in pena in cui ancora sopravvivono gli ultimi istinti – si nutrono di falene e scolopendre, cacciando lesti come pipistrelli. Un tempo erano stati uomini forti, forse belli, sicuramente ricchi. Esseri abituati a scrutare il mondo da prospettive superiori e a esercitare le più ambigue forme di potere. Fino al giorno in cui, chi per una ragione chi per l’altra, avevano scelto di liberarsi per sempre dai fardelli dello spirito. Ai maghi consegnavano tutto: oro, titoli, denaro. Quelli prosciugavano l’ultima stilla della loro miserevole anima. Nessuno – concluse il berbero – sapeva di preciso cosa venisse proposto in cambio. Indifferenti e spietati, padroneggiavano sortilegi in grado di cancellare nella mente ogni traccia di passato.
Per trovare Antoine impiegai ventisette giorni.

Marocco. Foto di Giuseppe Zanoni

***

La verità è che ero partito senza la speranza di rivederlo. Dopo due anni, i suoi messaggi appartenevano a un uomo che non esisteva più. Sapevo che Antoine era lì da qualche parte, ma riconoscerlo in quel formicaio di spettri sarebbe stato quasi impossibile. Ci misi poco a capirlo: una volta privati dell’anima, gli abitanti della Città nera mutavano lentamente forma assumendo, nel giro di pochi giorni, le sembianze di fanciulli gracili e biondi. Quando me ne resi conto, il sospetto di aver fallito divenne certezza, e fu quello il momento in cui compresi che non ero arrivato fin lì per salvare un amico, ma perché volevo perdermi anch’io, lasciarmi dimenticare. Diventare a mia volta un bambino fantasma.

Lo trovai rannicchiato in una pozza di escrementi e fango, respirava a malapena. Era solo un bambino, un cucciolo magro e ossuto, come tutti gli altri. Riconobbi il naso sottile, appena sporgente, delicatamente proteso all’insù. Inconfondibile, malgrado la mutazione: un’appendice di cartilagine e ossicini che fin dai tempi dell’asilo gli era costata quel soprannome buffo, Pique la lune.
Provai a chiamarlo, non ottenni risposta. Sussurrai il mio nome. I suoi occhi congelati non tradivano né paura né ansia, solo uno sbalordimento lontano. Avevo fame, sete, e temevo che una volta piegato su di lui non sarei più riuscito a rialzarmi. Vidi il rosso di una sentinella appostata tra i due comignoli del palazzo di fronte, il fucile in spalla, il volto invisibile puntato verso di noi. Avrebbe potuto spararci, non lo fece. Ancora adesso mi chiedo quale paura trattenne la sua mano.

Superammo le rovine della Città nera, nessuno si oppose alla nostra uscita. Non uno sparo, una parola gridata dall’alto. I bambini fantasma, spaventati, si spostavano al nostro passaggio. Abbandonato sulle mie spalle, il corpo di Antoine sussultava, mentre io sprofondavo nella sabbia aspettando a ogni passo il morso di un serpente. Di front a noi la notte accarezzava il mare di dune scure tenendo segreta la giusta direzione.
Quando spuntò l’alba mi fermai per salutare le ultime stelle. Il bambino dormiva, sentivo la sua bocca soffiare i lenti respiri del sonno. Piangendo, gli baciai un ginocchio, sapeva di sale.
Mi voltai ancora una volta. Il sole aveva già cominciato a colorare di arancione le nuvole e le rovine ormai lontane, e l’oceano di sabbia che ammutoliva custodendo i nostri ricordi, le nostre anime, tutto ciò che eravamo o che non saremmo mai stati.

* Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato due libri Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino.

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