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IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Manuela Di Vito (maggio 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Manuela Di Vito

Ok, ho appena finito di leggere Ragazze di campagna di Edna O’Brien (trad. di Cosetta Cavallante, Elliot, 2013) e sbotto: quanto non mi piacciono i finali aperti! I non finali, quelle storie che sai dove cominciano ma non sai dove vanno a parare. Certo, è una dolcissima fotografia dell’adolescenza femminile e dell’Irlanda, dei luoghi che per altro ho visitato la scorsa estate: Wicklow, Galway, Dublino. Più che natura selvaggia campagna selvaggia e collinosa, come l’animo di due ragazze di quattordici anni, tra le cui pieghe, fossi boschetti cespugli sali e scendi,  si rintana sempre qualcosa, nascosto alla vista di chi le circonda. Un pensiero, un sentimento, un gesto, un cane, un uomo. Un uomo, non un ragazzo. Ma manca il finale!

Forse è per questo che, subito dopo, come niente attacco Il Pianeta di Standish di Sally Gardner (trad. di D. Vezzoli, Mondadori, 2013) ed ecco una storia a cui invece manca l’inizio. La fine c’è, qui, ed è proprio una fine coi fiocchi. È il Piccolo principe cresciuto che però trova di nuovo la stessa, tristissima strada per tornare a casa. Casa, che qui però non si chiama B 612 ma Pianeta Platone ed è il luogo dove si rifugiano i sogni di due ragazzi, Standish ed Hector. Sogni scappati da una Terra in cui è diventato impossibile esistere. Eppure nessuno ci dice bene cos’è successo, mai, nessuno ci spiega chi sono gli uomini con la giacca di pelle e gli occhiali scuri né gli Afidi Verdi, nessuno ci fa mai incontrare un Ostruzionista o ci parla di una guerra in particolare. Tutto si risolve nel giro di poche settimane e quello che riusciamo a vedere è solo ciò che vede, ricorda e pensa Standish Traedwell. Quello che fa. Racconto distopico, appassionante cifra stilistica. La voce del protagonista è chiara e distinta e riesce a portarti con lui. Tu che non sai niente ma conosci solo Standish e non riesci a mollarlo, gli stai incollato, fino alla fine.

Ora ho capito che ci sono le storie che sono storie, che hanno un inizio e una fine, le storie fatte di tempo, sequenze, accadimenti, persone, quelle che magari hanno pure una morale, e poi ci sono altre storie. Queste ultime non sono fatti ma nomi. I loro confini non sono segnati da quella materia sfuggente che è il tempo ma da carne e sangue e soprattutto pelle, e queste cose, per quanto materiali, sono infinite.
Dopo aver navigato per mari nuovi è bene però, tornare ogni tanto presso lidi conosciuti. Tu che mi consigli Jane, di leggere stasera? A rispondere non è lei direttamente ma per sua vece Fanny: Di certo tieniti lontana da Lovers’ Vows, risponde con un certo turbamento nella voce e, se proprio, leggi Sir Walter Scott e sogna «molti scudi e laceri stendardi».
Cara, carissima Fanny, tu sei l’emblema stesso del conosciuto che si oppone al cambiamento, la stabilità che tiene testa ad ogni scossone che la modernità porta con sé, la tua non è passività ma forza, la tua immobilità è resistenza e Mansflied Park di Jane Austen (trad. di L. De Palma, BUR, 2002) è il regno che tu difendi con coraggio. Non sapevi che è inutile opporsi al cambiamento ed è un bene, poiché altrimenti non ci avresti insegnato che val la pena, per lo meno, sempre di provare a restare se stessi, anche in mezzo alle tempeste e alle guerre.

Infine, dopo non so quanto tempo, eccomi qui, a tornare su un classico che per me è nuovo, e ancora, pure, alla mia vecchia passione che sono i libri per ragazzi che, però, solo per ragazzi non sono mai. Sto finendo di leggere, ora, La collina dei conigli di Richard Adams (BUR 2013) e mi sono innamorata, che un coniglio di più non potrebbe, di quell’«aperta campagna coltivata» dell’Hampshire, fatta di «ampi soffici pascoli, in lieve pendio e divisi, non da siepi, ma da argini, non tanto alti, larghi come un viottolo e sui quali crescevano sambuchi, cornioli, evònimi», «praticelli colorati come arazzi, trapunti di centaura, di brunella e tormentilla». Sembra un poetico trattato di botanica, completo di odori che cambiano a ogni ora del giorno, e invece è un’avventura meravigliosamente narrata di animali che sembrano uomini – hanno una lingua, il lapino, usi e costumi, una mitologia – e ci fa ricordare che, tolto il pelo, sono gli uomini a non essere altro che animali, per fortuna e senza togliere niente a nessuno.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Manuela Di Vito

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Anna Lucia Nicosia (aprile 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Anna Lucia Nicosia

Anna Lucia Nicosia è romana di nascita, siciliana di indole, sarda per passione, piemontese d’adozione. Nella vita ha scelto di occuparsi di comunicazione, ma forse i Savoia hanno scelto per lei, mettendola fin dall’infanzia nella difficile situazione di conciliare in un’unica immaginaria lingua fantasma, che alcuni si divertono a chiamare italiano, le varie anime di famiglia, dialetti, mentalità, storia e costumi. Scrive in realtà perché non ama parlare. Per lo stesso motivo, adora ascoltare e osservare tutto e tutti. Tenta inutilmente da anni di non fare più politica. Ha aspettato impaziente per anni che i suoi figli crescessero per potere fare grandi cose, ma poi si è accorta che le grandi cose le aveva già fatte ed erano proprio loro. Fin da piccolissima frequenta tutte le librerie di Roma, grazie a un papà poco comunicativo, ma molto lettore e collezionista compulsivo di carta stampata. Arrivata alla soglia dei cinquanta e dopo tanto peregrinare, ha trovato il suo porto sicuro e non poteva che essere una libreria. Storica, piccola e specializzata nel mare, ci ha trovato dentro tutto quello che le serve per essere felice: amore, lavoro, divertimento e qualche soddisfazione.

Il mio comodino è come una tavola imbandita. Ospita più portate. Ognuna ha il suo perché. Non possono mancare libri che stuzzicano l’appetito, libri che è bene leggere per crescere, libri che si divorano per gola, libri che ti riempiono quando hai tanta fame, libri che fanno scoprire nuovi sapori, libri consolatori per il fine serata. Ce ne deve essere uno di ogni tipo sul mio comodino, pena una strisciante insoddisfazione che non tarda a trasformarsi in insonnia.
Rabbrividiranno i più, ma i libri del mio comodino subiscono una drastica selezione anche in base al formato e al peso. Oltre una certa taglia infatti passano ad essere libri da divano, più su esistono i libri da colazione, e infine i libri da studio, è una questione pratica legata alla loro godibilità nelle diverse situazioni. I libri da comodino devono consentire il massimo confort in qualsiasi posizione si decida di leggerli: sdraiati a pancia in su, su un fianco, seduti, con un cuscino oppure due, indispensabile poterli tenere con una mano sola, per poterli fare scivolare senza gravi conseguenze quando il sonno prende il sopravvento. Quindi leggerezza e maneggevolezza sono indispensabili.

Il mio comodino di oggi prevede nove portate.

Per crescere, ottimi Simboli al potere di Gustavo Zagrelbesky (Einaudi, 2012) e Lezioni americane di Italo Calvino (Garzanti, 1998). Se è vero, e per me lo è, che non si può non comunicare e non si può non fare politica, direi che questi due piccoli libri fanno parte del mio pacchetto sopravvivenza.

Per gola non rinuncio alla narrazione naturale e delicata di Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, 2013). La nostra piccola Italia quotidiana vista con gli occhi della mia generazione. Libro facile e di compagnia.

Se però la fame è seria, c’è bisogno di cibi sostanziosi. Il posto se lo contendono in quattro al momento.  Ballando a notte fonda di Andre Dubus (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 1996), racconti conosciuti grazie a una splendida presentazione ascoltata alla Libreria Fahrenheit di Campo dei Fiori, e strettamente connesso a quest’ultimo Le undici solitudini di Richard Yates (traduzione di Maria Lucioni, minimum fax, 2006) che inserirei anche fra i nuovi sapori.

Strascico dell’otto marzo appena passato Foxfire di Joyce Carol Oates (CDE, 1993), da poco trasposto al cinema per la seconda volta, e per la seconda volta con poco successo. Il libro ha una narrazione densa, dialoghi minuziosi. Ci vuole impegno e costanza per immergersi nella storia, ma una volta entrati è difficile sganciarsi. Un mondo femminile molto poco convenzionale, per nulla frivolo, fotografato in modo spietato, nelle sue durezze, sofferenze e intricati rapporti di forza e d’amore.

Chi ti credi di essere di Alice Munro (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 2012) è sul comodino prima di tutto perché me lo ha regalato mia figlia, e quindi è entrato fra i miei preferiti un po’ da raccomandato. Chi ti credi di essere? però non ha tardato a farsi amare per i suoi meriti. Sempre nel mondo femminile, a tinte decise, ma se la Oates ha dipinto a olio, la Munro usa tempere leggere per raccontare le sue storie. Direi che potremmo inserirlo anche fra gli aperitivi rinforzati.

I dolcetti finali sono lì ad aspettarmi fedeli ormai da anni. Sono un po’ come le preghierine della sera. Sempre le stesse, ma ogni sera con un significato diverso. Vista con granello di sabbia di Wislava Szymborska (a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, 1998), e Poesie d’amore di Nazim Hikmet (Mondadori, 2002). Ho provato a sostituirli, ma senza successo. Del resto sarebbe come cercare un degno sostituto della cioccolata fondente. Lo sanno tutti che è impossibile.

Infine, Biografia intima di Edward Hopper di Gain Levin (traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi, 1995). La biografia di Hopper se ne sta lì appoggiata da tempo immemorabile. Fa parte dei libri da colazione, ed è stata divorata e digerita da alcuni anni. Ma mi ricorda il bello, il silenzio, la solitudine e l’emozione di una mostra romana goduta con una rara intensità. Insomma Hopper l’ho nominato senatore a vita e la sua presenza deve essere garantita in ogni stanza della casa e senza limiti di tempo.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Anna Lucia Nicosia

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Rossella Gaudenzi (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Rossella Gaudenzi

«Egli era bello, e la cosa, al nostro orecchio, come siamo avvezzi a pensare la bellezza, può non voler dire nulla. Ma una qualità rara e indefinibile della sua mente, l’ardore, l’ampliava rendendo quel giovane volto simile a un sole talvolta, a una notte lunare talaltra; mentre quasi eternamente emanava da lui la luce e la dolcezza stordente di una marina ionica nel mese di maggio. Era anche come un bosco in aprile, quando si sciolgono le nevi e i rami delle betulle dondolano simili a sottili braccia d’oro, braccia di bambine. A bella posta abbiamo usato queste espressioni retoriche; senza la retorica, nulla di serio e di vero può essere detto, mancando quel falso ch’è misura o supporto del vero. Almeno è questa la nostra convinzione».

Ho acquistato Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese (Adelphi, 1993) a pochi euro presso la libreria romana di nuovo e usato L’Arcobaleno, nel quartiere Prati. Iniziava la primavera, la primavera di un anno fa; il libro è stato amorevolmente impilato insieme ad altri, i “non troppo urgenti” e dopo un trasloco e il passaggio di collocazione dalla nuova libreria al comodino, lo leggo rapita. Scorrendo le pagine mi sembra di procedere a lunghe falcate, con l’istinto di accelerare il passo, non fosse che poi il piacere della lettura si esaurirebbe troppo rapidamente. In quest’opera della romana, schiva scrittrice amante di Napoli, si impone con forza la prosa visionaria, suo tratto distintivo. In una Napoli di fine Settecento tre giovani viaggiatori di Liegi si mischiano irreversibilmente alle vicende misteriose e avvolte di malìa di una famiglia di guantai. Emergono personalità controverse, figure dalla sensibilità medianica, scomode sfumature dell’animo umano. Una lettura che attrae e al tempo stesso incute timore.

La necessità, in questo caso, è quella di colmare le mie deficienze quanto a letteratura americana. Cosa aggiungere di significativo su Pasto nudo, il più famoso romanzo di William S. Burroughs  suggerito da Jack Kerouac. Non ho capito che cosa volesse dire fino alla mia recente guarigione. Il titolo significa esattamente ciò che le parole esprimono: Pasto NUDO –  l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta».

Particelle di Soheila Beski (traduzione di M. Vitalone, Ponte33, 2013) mi è giunto in dono, inaspettatamente, dall’amata piccola casa editrice Ponte33. Un anno fa mi sono appassionata alla scommessa di diffondere la letteratura contemporanea in lingua persiana di Felicetta Ferraro e Bianca Maria Filippini e ho apprezzato le dure pagine della raccolta di racconti I fichi rossi di Mazar-e Sharif dell’afghano Mohammad Hossen Mohammadi. Particelle è un’opera di Soheila Beski, figura significativa di intellettuale iraniana, scrittrice, traduttrice e critica letteraria. Questo libro, scritto nel 2009, narra di un sessantenne iraniano senza virtù, in bilico tra un mondo – ipocritamente – tradizionalista e una tecnologia che travolge e sconvolge ad altissima velocità il suo Paese. L’accattivante copertina di Particelle, come le copertine di tutti i libri in catalogo di Ponte33, è opera del giovane artista Iman Raad, in linea con la volontà della casa editrice di diffondere il ricco patrimonio grafico iraniano. Ho appreso con gioia che a Ponte33 è stato recentemente assegnato il Premio Nazionale per la Traduzione 2013.

Il gioiello del mio comodino, nonché il libro della buonanotte è Le fiabe di Hans Christian Andersen, a cura di Noel Daniel (Taschen, 2013). Un regalo di compleanno ricevuto da una persona amica che non cessa di stupirmi con il suo bagaglio di conoscenza e sensibilità. Un libro di grande bellezza, a partire dalle sensazioni tattili, iniziando con il toccare la copertina di tela azzurra, le scritte dorate e le illustrazioni a rilievo. Le fiabe, note e meno note, le apro a caso, leggo e rileggo, sfoglio ammirando talvolta solamente le illustrazioni. Questa raccolta, a cura di Noel Daniel, ha il valore aggiunto di racchiudere le illustrazioni realizzate tra il 1840 e gli anni ’80 del Novecento da artisti  celebri come Kay Nielsen, Lotte Reiniger, Tom Seidmann-Freud (la nipote del padre della psicanalisi) e talentuosi artisti più recenti. In più una corposa introduzione, note storiche, un’appendice con le biografie degli artisti, i capilettera all’inizio di ogni fiaba decorati con viticci di pisello «in omaggio alla capacità di Andersen, unica e magica, di trovare la bellezza e dare valore anche alle cose più piccole e semplici». Lo apro, lo tocco, lo sfoglio, lo ammiro, lo leggo e rileggo. E poi chiudo gli occhi.

I primi di gennaio, la scelta dell’agenda è caduta sull’ormai celebre Scarceranda, agenda autoprodotta dal 1999 da Radio Onda Rossa, con il motto: «contro il carcere giorno dopo giorno, perché di carcere non si muoia più, ma neanche di carcere si viva». Parole sufficienti per acquistarla. È il mio covo di pensieri, progetti, successi e insuccessi, e come ospite in terra straniera ha trovato felicemente posto, sul mio comodino, insieme ai libri.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Rossella Gaudenzi

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Massimiliano Borelli (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Massimiliano Borelli

Massimiliano Borelli è nato a Roma nell’incipit d’aprile del 1982. Ha un dottorato, una copia del Giovane Holden con il disegno di Ben Shahn in copertina, la prima edizione dell’Oblò di Adriano Spatola, delle biglie. Ha pubblicato un libro sulle Prose dal dissesto degli anni Sessanta e uno su Manganelli. Attualmente lavora come redattore e editor, in particolare con L’orma e West Egg.

Teju Cole, Città aperta (Einaudi, 2013. Trad. di Gioia Guerzoni). Romanzo d’esordio dello scrittore nigeriano, è una flânerie tra le strade di New York, che dalle strade di New York si diparte fino all’Europa e ritorno, e divaga tra i fantasmi di un presente colto in presa diretta, di un ferito passato prossimo e di un passato remoto rimosso. Una scrittura fatta di digressioni e incontri, distrazioni e zoomate, che tasta la superficie delle vie per sondarne il sottosuolo, per scoprire infine che «ciò che sembrava essere svanito del tutto, all’improvviso esisteva ancora».

Silvio D’Arzo, All’insegna del Buon Corsiero (Greco & Greco, 2011. A cura di Andrea Casoli). Quest’«avventura terrena d’altri tempi» D’Arzo la scrisse poco più che ventenne, e la pubblicò da Vallecchi nel 1942. Mentre la guerra incrudiva, dunque, c’era un ragazzo a Reggio Emilia che si dava a una storia trasognata e sospesa in un settecento fittizio e teatrale, dove un funambolo veniva a increspare le acque chete di un paese di pianura. Ma si badi, quel funambolo odora di zolfo e c’è del satanico nella sua apparizione.

Giacomo Leopardi, Con pieno spargimento di cuore. Lettere sulla felicità (L’orma editore, 2012, a cura di Marco Federici Solari). Un «Pacchetto» che mette in mostra un Leopardi inatteso, vicino al mondo, agli individui che lo popolano. Lettere che contengono «grida di furore, luminose parole di affetto, consigli pratici su come affrontare il dolore, reiterati inviti a non arrendersi mai, a dare testimonianza di una vita intensa e travagliata, ostinatamente volta a comprendere il mondo, a sperimentare vie di esistenza possibili senza mai abdicare alla ricerca di una felicità praticabile per sé e gli altri» (M.F.S.).

Diabolik. Dietro la porta chiusa. Non manca mai, da qualche tempo, un numero del “re del terrore” delle sorelle Giussani (uno a caso, in disordine, con una predilezione per le ristampe e le seconde ristampe, gli «Swiisss»). Efferato assassino e ladro finissimo, con Eva Kant vive da qualche parte a Clerville, in una splendida villa modernista. Le trame che lo coinvolgono sono prevedibili e spesso cavillose (e c’è sempre un trucco, un marchingegno o un qualche veleno che lo salva da Ginko, armi segrete apprese in gioventù dal mentore King), ma il piacere del fumetto sta tutto – per me – nel formato, nello scricchiolio della copertina, nei disegni dantan, nelle icastiche battute a effetto.

Davide Orecchio, Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi, 2011). «[…] e mi chiedo quali regole nascoste ci costringano a naufragare, ad arenarci come relitti», così uno dei sei personaggi al centro dei racconti sebaldiani di uno scrittore-storico, che nella storia e nelle pieghe dei suoi archivi trova la materia per le sue invenzioni. Un libro denso di una scrittura nervosa e calibrata al grammo, dove esistenze volatili e destinate alla risacca vengono carpite e riscattate dalla letteratura, in un piccolo campionario a contrappelo del Novecento.

Aby Warburg, Il rituale del serpente (Adelphi, 20114. Trad. di Gianni Carchia e Flavio Cuniberto). Prima di lasciare la clinica di Kreuzlingen dove era andato a curare le sue crisi nervose, Warburg pronunciò di fronte al pubblico di pazienti e medici questa leggendaria conferenza, di cui più tardi ebbe a vergognarsi per le carenze che vi ravvedeva. È tuttavia un vivido resoconto del suo incontro con gli indiani Pueblo e i loro rituali, sulle tracce della presenza simbolica della figura del serpente, collegamento tra vita terrestre e mondo ctonio.

James Eade, Scacchi for Dummies (Hoepli, 2013. Trad. di Lorenzo Flabbi). Poche parole bastano: un metodo per imparare il giuoco degli scacchi. Prima o poi, ce la si farà.

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Il comodino di Massimiliano Borelli

 

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Annalisa Di Salvatore (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Annalisa Di Salvatore

Annalisa Di Salvatore è abruzzese, laureata in Lettere moderne e specializzata in Didattica dell’italiano come lingua straniera, ha lavorato come insegnante di italiano L2 a Roma (di qui, di là, di su, di giù, con grande gioia dell’Agenzia del trasporto autoferrotranviario del Comune di Roma). Dopo anni sciupati su volumi accademici di glottodidattica, legge raramente saggistica e solo sotto stretto controllo medico; per lei lettura significa romanzi e racconti, qualche volta poesia. Ha scritto racconti per Vicolo Cannery e Abbiamo Le Prove. Il suo blog è Tornasole.

annalisa.disalvatore@gmail.com
Twitter: @MorelleRoug

John Fante e Rudolph Borchert, Bravo, burro! (traduzione di Francesco Durante, illustrazioni di Marilyn Hirsh, Einaudi, 2010). Ho scelto di cominciare da John Fante per atto di devozione verso lo scrittore che, sì, lo dirò con quelle abusate parole melense: mi ha cambiato la vita. Ho letto tutti i suoi romanzi e quasi tutti i suoi racconti, ingozzandomene in un’estate di diversi anni fa – restano le sue sceneggiature, dove sono, dove le trovo?
Mi mancava questo libro, forse tra i meno conosciuti di John Fante – pare d’accordo il suo biografo Stephen Cooper (Una vita piena. Biografia di John Fante, traduzione di Francesca Giannetto e Ilaria Molineri, Marcos y Marcos, 2001).
Considerato “un’opera minore” (etichetta che mi ha sempre inquietato), Bravo, burro! è un libro scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione con lo sceneggiatore Rudolph Borchert, insieme al quale Fante decise di riprendere un loro vecchio trattamento cinematografico (Black Mountain, 1965) e cavarne fuori un libro per ragazzi. Non appena l’ho ricevuto in regalo, l’ho accantonato per tre o quattro anni, lasciandolo intonso e perfino custodito nel suo pacchetto a me caro – mi piace dare e ricevere libri incartati in fogli di giornali, come si fa con le uova prese dal contadino, o nei sacchetti del pane. Stava lì, non lo guardavo, leggevo altro. Succede così quando ricompare un grande amore giovanile, mitizzato dal tempo, di cui si ha desiderio e timore di aggiornare l’immagine. Ho preso coraggio e ho cominciato a leggerlo da poco. Storia di un bambino e del suo burro («sì, insomma, un asinello»), il libro potrebbe a prima vista sembrare il meno fantiano di tutti. Ma attenzione: c’è presto di mezzo un padre, un padre vizioso, amante di alcolici, un padre determinante, un padre sanguigno, che dopo appena poche pagine compare granitico nei suoi abiti da manovale. È lui, mi sembra di riconoscerlo, lo Svevo Bandini che ho amato, il Nick Molise che ho adorato. Mi sento già a casa.
* Dal 2006 si tiene ogni agosto a Torricella Peligna (Chieti) il festival dedicato a John Fante, Il dio di mio padre. Ovunque tu viva, non sei un vero fantiano se non ci vai in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. È il tuo doveroso “ḥajj”.

Grace Paley, Enormi cambiamenti all’ultimo momento (traduzione di Marisa Caramella, Einaudi eBook, 2010). Un piccolo gioiello che vado ancora rigirando tra le mani, scoperto per caso grazie a un amico di cui seguo con fiducia qualunque suggerimento di lettura. Un giorno mi ha detto che la mia scrittura somiglia a quella di Grace Paley. Io ho pensato, ma non gliel’ho detto subito: chi diavolo è Grace Paley? Sono corsa a leggerla e, dopo appena un paio di pagine, ho deciso che il mio amico aveva detto una bestialità: i racconti di Grace Paley sono inarrivabili e perfetti, possono somigliare solo ai racconti di Grace Paley. La quale non ha mai scritto un romanzo, ma solo racconti, e pure pochi. Meglio, non ha mai pubblicato un romanzo – chi può dire cosa ci fosse davvero tra le sue carte e le sue tentazioni, – ma la forma del racconto appare la sua misura, galleria compiuta di ritratti restituiti con scrittura minuta ed essenziale, potentissima: «Vidi il mio ex marito per la strada. Ero seduta sui gradini della nuova biblioteca. Ciao, vita mia, gli dissi. Il nostro matrimonio era durato ventisette anni, mi sentivo giustificata. Lui disse, Come? Quale vita? Non la mia. Io dissi, Ok. Non è mia abitudine discutere, quando le posizioni sono inconciliabili.» (incipit di Desideri). Quanto lavoro, mi chiedo, quanto lavoro ci sarà stato per montare una simile inquadratura, un dipanarsi di esistenza racchiuso nel giro di poche righe? E poi mi dico anche: è un peccato, è proprio un peccato che in Italia il racconto non goda, presso editori e lettori, della stessa benevolenza di cui gode il famigerato, acclamato, inneggiato romanzo.

John Cheever, Il nuotatore e altri racconti (traduzione di Marco Papi, Fandango, 2008). Col tempo mi è venuto un debole per i racconti, sì, avrei dovuto dirlo subito. Libricino riletto proprio  di recente per un bisogno di ritrovare voci care, di racconti ne raccoglie tre, fra cui Il nuotatore, che ho amato.
In una ciondolante domenica d’estate, stravaccato e brillo ai bordi di una piscina a casa di amici, Neddy Merrill è visitato dal proposito di attraversare a nuoto la sua città, tuffandosi da una piscina all’altra di tutti i suoi vicini e conoscenti, per ritornare a casa sua. Lo fa. «Gli sembrava di vedere, con un occhio da cartografo, il dispiegarsi delle piscine, quel corso d’acqua quasi sotterraneo che si snodava attraverso la contea. Aveva fatto una scoperta, aveva dato un contributo alla geografia moderna, …» (p. 12). Di piscina in piscina, il tempo cambia, il cielo annuvola, promette una pioggia imprevista quanto i dialoghi con le persone che Neddy Merrill via via incontra. Ce la farà a portare a termine la sua impresa? Me lo chiedo tutte le volte come la prima, finché compare sulla pagina scritta lo spazio di una riga vuota: da lì, il viaggio liquido di ritorno a casa comincia ad andare con bracciate diverse. La scrittura di Cheever è magistrale nel fregarci tutti, fate attenzione a questo abile manipolatore di storie mentre siete in apnea.

Francesco Piccolo, La separazione del maschio (Einaudi, 2008). Letto, riletto, spaginato, accarezzato, annusato, saccheggiato, seviziato con decine di orecchie fatte agli angoli delle pagine e incerottato di post-it, sempre sul comodino o sulla scrivania per tornare a interrogarlo a mo’ di aruspice, per me è il miglior romanzo di Piccolo. Storia semplice, annunciata nel titolo, che comincia da tutta un’altra parte: al bar, davanti a un cappuccino, spruzzato di un cacao non richiesto dal cliente nella sua prima mattina da padre. Piccolo fa così, alla storia gli si mette di lato. La carnosità del libro, in questo modo, si palpa presto. Qui un assaggio: «Non ho mai dato in mano a nessuno il destino di una sola giornata – ma l’ho sempre affidato a più mani. Se mi innamoro, continuo ad amare e a scopare con altre. In questo modo, l’innamoramento è più sopportabile» (p. 172). È una lettura che, non saprei dire con chiarezza perché, mi capita di consigliare più spesso a donne che a uomini, insieme a quell’imponente capolavoro di Domenico Starnone che è l’Autobiografia erotica di Aristide Gambía (Einaudi, 2011). A gusto mio, due romanzi veri. Vero è quando l’autore non ingombra il lettore con la sua presenza di scrittore; quando si fa operaio, non direttore, nella fabbrica della sua storia;  quando, nel suo osservare preciso e affilato, non ha alcuna pietà, nemmeno per se stesso. Mi viene in mente quel che disse Faulkner in un’intervista del 1956, a proposito dell’essere scrittore: «He is completely amoral in that he will rob, borrow, beg, or steal from anybody and everybody to get the work done. […] Everything goes by the board: honor, pride, decency, security, happiness, all, to get the book written. If a writer has to rob his mother, he will not hesitate». Ecco, leggere i due romanzi di Piccolo e Starnone a breve distanza l’uno dall’altro avvicinerà a questa irrinunciabile idea. Fortunatamente, ci sono – sì, anche oggi – scrittori italiani che sanno fare bene quel che diceva Faulkner. E loro non sono mica gli unici.

Salvatore Mannuzzu, La ragazza perduta (Einaudi eBook, 2011). Di questo autore avevo letto solo Snuff o l’arte di morire (Einaudi, 2013) e con quello avevo presto deciso che avrei cominciato a pedinarlo, andando a ritroso tra i suoi libri. Questo è il secondo che ho letto e non ho cambiato idea. È il ritorno di un racconto, Dedica, pubblicato nella raccolta La figlia perduta (Einaudi, 1992), che non ho avuto il piacere di scovare e leggere. Il ritorno doveva essere una «ripulitura veloce» per una nuova edizione, dice Mannuzzu, invece le cose sono andate diversamente: ripreso, ripensato, riscritto, La ragazza perduta, storia dell’amore tra un magistrato e una ragazza di appena diciassette anni, era elegia vent’anni prima, è tragedia ora: «Ora invece io protesto contro questa mia affermazione di allora. Oggi dico che dalla vita non si guarisce». C’è qualcosa nello stile levigato e sostenuto di Mannuzzu che fa pensare a stanze dai soffitti alti e arredate con mobili antichi, mi ricorda un po’ quello di Michele Mari. Può essere perché i due hanno in comune l’esperienza dell’urgenza di una riscrittura?

Louis-Ferdinand Céline, Morte a credito (traduzione di Giorgio Caproni, Garzanti, 2007). Lo sto leggendo da quando ho capito che per il momento – un momento che dura da qualche anno, – non ce l’avrei fatta a risolvere i miei conflitti con Proust, legame intermittente e tormentato. Con Céline credo che andrà meglio, l’ho deciso a pagina 5: «Son dei bei rompicoglioni, i filantropi». Ma non lo so.

Yasmina Reza, Felici i felici (traduzione di Maurizia Balmelli, Adelphi eBook, 2013). Una lettura temporaneamente lasciata in sospeso, per mancanza di forze ed evidente ingorgo di letture. Ho fiutato subito che quella della Reza è una voce da ascoltare in completo abbandono, nel tempo adatto a un’attenzione esclusiva.

Ci sono altre letture in attesa, ma ho sforato le battute come mi è d’abitudine. Ci vorrà un altro comodino.

 

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Annalisa Di Salvatore

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Emanuela D’Alessio (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Emanuela D’Alessio

Barack Obama, durante lo shopping natalizio, ha comprato due libri: uno era La moglie di Jhumpa Lahiri. Anche io l’ho acquistato (per regalarlo a mia madre). Chissà se Obama lo ha letto. Io lo sto leggendo ma temo che non avrò modo di confrontarmi con il presidente americano! Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, si è trasferita da un anno a Roma, perché ama la lingua italiana. E io amo la sua scrittura, elegante, intensa, dolente. Ho letto i suoi tre libri precedenti (pubblicati da Guanda): L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra. Tutti incentrati sul grande tema della doppia identità, sul conflitto profondo tra la cultura di origine e quella di arrivo, sul desiderio di abbandonare il paese della nascita (l’India) e sull’impossibilità di trovare una nuova terra (gli Stati Uniti). Storie di esilio e di perdita, di amori delusi o negati, di conflitti famigliari. Storie quotidiane di chi vive con smarrimento la nuova esperienza di emigrante, di chi lotta contro la diversità di un paese lontano ed estraneo, di chi dall’India non se ne è mai andato. Anche La moglie (Guanda, 2013. Trad. di Maria Federica Oddera) ripropone questo affresco, arricchito da una contestualizzazione storica. Ci si trova a Calcutta, infatti, negli anni dell’indipendenza indiana, delle prime sommosse guidate dal partito maoista alla fine degli anni Sessanta. I due fratelli Subhash e Udayan sono uniti da un legame indissolubile, nonostante la loro diversità. Subhash è silenzioso e riflessivo, Udayan è ribelle ed esuberante. Subhash decide di andare negli Stati Uniti per intraprendere una tranquilla carriera universitaria, Udayan diventa un militante maoista e prosegue la sua ribellione scegliendo di sposarsi per amore, contravvenendo alle tradizioni famigliari e culturali. Due percorsi diversi destinati a ricongiungersi quando Udayan viene ucciso dalla polizia e Subhash decide di tornare a Calcutta. Sto ancora leggendo, procedo lentamente come il ritmo della narrazione. Perché Lahiri non ha fretta, non travolge né incalza, scende piano in profondità. È il suo modo di scrivere. «Ho iniziato il libro sedici anni fa – racconta in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 13 gennaio 2014 – con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Poi non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato gli altri tre e dopo dieci anni l’ho ripreso». Per Jhumpa Lahiri il processo di scrittura è un lavoro lungo, che richiede tutto il tempo necessario. «Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo o descrivo una cosa: un viso, una vista, un sentimento, un’emozione. Poi però ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile».

È stato inevitabile, nel frattempo, imbattermi in Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch (Del Vecchio, 2013. Trad. Paola Del Zoppo). In particolare dopo aver letto Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza, il bell’articolo di Alessandra Melia sul sito dell’agenzia DIRE dedicato a questo racconto inedito dell’autore svizzero morto nel 1991. Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (suggerita nell’articolo) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità. Ho iniziato a leggere Il silenzio, racconto giovanile scritto nel 1937 e ripudiato dall’autore. Frisch, come ho scoperto dalla postfazione al libro di Peter Von Matt,  ha avuto una vita ricca e intensa, ha cambiato più volte scenario (poeta, scrittore, giornalista, architetto, soldato). Era un grande viaggiatore e scalatore esperto, ha avuto amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). La lettura si è rivelata illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano». Rarefatto come l’aria che si respira ad alta quota, solitario come il mattino, fresco e morbido come un guanto di seta che accarezza il volto. Sono queste le immagini che affiorano tra le pagine dense e lievi, di una scrittura lenta e costante come il passo di chi sale verso una vetta. Il viandante solitario che decide di scalare la Cresta del Nord (sulle Albi bernesi) ci porta con sé e con la giovane Irene in un viaggio interiore alla ricerca di una vita straordinaria dove si immagina ci sia la felicità come premio finale. Unico traguardo per cui  valga la pena vivere, compiere un gesto estremo. «A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perché una vita così lui non può e non vuole sopportarla». Sono molte le frasi che meriterebbero di essere riportate, ne aggiungo solo un’altra: «e se si fossero baciati, avrebbero saputo che quelli erano i primi e gli ultimi baci, e sarebbero stati baci come mai ce n’erano stati, parole come mai ce n’erano state, una felicità piena di addio che non avrebbe mai perso di significato, che non sarebbe mai sbiadita nella ripetizione, una notte che sarebbe esistita una volta sola e forse sarebbe per lei, per Irene, ancora di più, di più che un grande ricordo, forse il destino a cui è chiamata». Il libro si chiude con la Scatola nera del traduttore di Paola Del Zoppo.

Sul comodino c’è anche una lettura interrotta. È Lionel Asbo di Martin Amis (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto), la storia di un criminale da quattro soldi, rozzo e pericoloso, orgoglioso della sua stupidità e della sua ignoranza. Il cognome Asbo è l’acronimo di Anti-Social Behaviour Order, il decreto degli anni Novanta con il quale Tony Blair intendeva fermare i comportamenti antisociali. Lionel diventa milionario vincendo una lotteria, ma i soldi non migliorano la sua vita, ne esaltano solo la follia, gli eccessi, la volgarità, la spietata indifferenza. Soldi, pornografia, alcol e droga sono gli ingredienti dominanti di questa satira brutale, feroce, disperata, a tratti divertente, della società contemporanea. Gli stessi che Amis aveva utilizzato per scrivere Money (Einaudi, 1999), e già allora aveva detto tutto al riguardo (almeno per me). Molto meglio i suoi precedenti L’informazione (Einaudi, 1996) e Il treno della notte (Einaudi, 1997).

Con Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013. Trad. di Gioa Guerzoni) proseguo il mio percorso nella letteratura africana, rinnovato in questi ultimi mesi con la lettura di Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina (66thand2nd, 2013. Trad. di Giovanni Garbellini) e La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto). Teju Cole è nato in Nigeria nel 1975 e vive a Brooklyn. Con questo libro di esordio ha vinto, tra gli altri, il PEN/Hemingway Award.

Per continuare, invece, a esplorare il tema del viaggio ho scelto Vertigini di W.G. Sebald (Adelphi, 2003. Trad. di Ada Vigliani), passaggio inevitabile dopo aver letto l’estate scorsa Gli emigrati (Adelphi, 2007). Sebald è un maestro dell’errare, non solo tra luoghi antichi e vicini ma anche tra i grandi del passato e la folla anonima dell’oggi.

Infine John Cheever, Tredici racconti  (Fandango, 2011. Trad. di Leonardo G. Luccone) che apro quando ho bisogno di frammenti, brevi immersioni in quel «secondo mondo dentro questo mondo», per dirla con Fitzgerald. Quando Cheever morì nel 1982, il suo amico scrittore John Updike scrisse di lui: «Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena Cheever faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche e sorprendentemente concentrate parole con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare con compassionevole magia» (dalla postfazione di George W. Hunt). Questi racconti, mai usciti prima in una raccolta, furono scritti tra il 1931 e il 1942 e offrono uno sguardo sui suoi anni di formazione. Cheever è stato un autodidatta, a diciotto anni fu espulso dal college per i suoi mediocri rendimenti. Come tanti altri all’epoca, Cheever rimase incantato dallo stile di Ernest Hemingway. Ecco un pezzo di Fall River, il primo racconto di questa raccolta: «La casa dove vivevamo si trovava sulla sommità di una rapida collina, il che ci permetteva di guardare in basso, verso le paludi salmastre e il grigiore del fiume che correva verso il mare. Era inverno, di neve neanche l’ombra, e per tutta la stagione le strade restavano polverose, il cielo pesante, e gli alberi avevano lasciato cadere a terra tutte le foglie. Ma il cielo rimase pesante e le strade polverose per altre tre settimane e, quando arrivò la primavera, della neve rimaneva solo un vago ricordo visto che ne era caduta così poca».

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